lunedì 29 agosto 2011

LA GRANDE MALATA

Rosa Elisa Giangoia

La grande malata in Italia è la scuola, ma, per capire la grave situazione in cui si trova, bisogna andare indietro di circa quarant’anni, quando è stata investita dall’ondata di richiesta d’istruzione superiore da parte di una sempre più ampia parte della popolazione giovanile. In questo momento era necessario un enorme sforzo di  innovazione culturale, pedagogica e didattica, nonché una grande progettualità organizzativa. Il passare da una scuola classista, selettiva e d'élite ad una scuola di massa, capace di fornire a tutti una cultura generale e nello stesso tempo competenze professionali, con possibilità per tutti di accedere agli studi universitari di qualunque tipo, era senz'altro un progetto complesso e molto ambizioso, soprattutto  senza modelli, né precedenti storici, per cui richiedeva un ripensamento generale dell'istruzione a tutti i livelli. Questo purtroppo non è avvenuto.  Sono state attuate solo e sempre piccole modifiche e innovazioni parziali, sovente di carattere demagogico, in particolare la liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie con provenienza da qualunque tipo di scuola superiore, che ha provocato difficoltà negli studi e frequenti abbandoni, situazioni che l’introduzione dei successivi test d’ingresso ad alcune facoltà non ha certo risolto, anche per il modo in cui sono organizzati.  Accanto ai modesti cambiamenti, è stata messa in atto tutta una serie di sperimentazioni, mai verificate, mandate avanti per inerzia, nel disinteresse dei vari ministri che si succedevano al dicastero, senza un progetto pedagogico, educativo e didattico globale. E' stato messo profondamente in discussione il nozionismo, senza riuscire a costruire modalità e percorsi diversi in grado di formare davvero autonomia di giudizio e capacità critiche, al di là del possesso saldo di conoscenze e dell’ acquisizione dei testi della tradizione culturale. A questa complessa riorganizzazione dell’offerta formativa doveva provvedere lo Stato, che ormai, dopo l’unità d’Italia, si era fatto carico dell’istruzione del paese, rendendo marginale l’apporto di altre agenzie educative che storicamente avevano avuto un grande peso, come era stato per alcuni ordini religiosi, Gesuiti in primis. Ma con il conferimento del valore legale ai titoli di studio, lo Stato aveva progressivamente avocato a sé l’organizzazione dell’istruzione del paese, in quanto anche gli altri avevano dovuto uniformarsi al modello proposto dallo Stato. Ma quando l’organizzazione gentiliana della scuola italiana è stata investita dalla richiesta di scolarizzazione di massa, lo Stato non è stato in grado di far fronte alla situazione in modo adeguato ed ora, appunto a quarant’anni di distanza, si possono fare un esame ed un bilancio della situazione. Cosa è successo? Innanzitutto con la scuola media unica, diventata scuola dell’obbligo, già si era abbassato il livello di conoscenze, competenze ed abilità rispetto a chi precedentemente aveva frequentato la vecchia scuola media, e nel contempo erano state del tutto eliminate le competenze professionalizzanti che le precedenti scuole commerciali e di avviamento professionale fornivano ad una parte consistente dei  ragazzi con la possibilità di un rapido inserimento nel mondo del lavoro. Ma anche quando la massa giovanile ha iniziato ad iscriversi sempre più numerosa alle scuole medie superiori, salvo pochissime modifiche strettamente necessarie, come quelle inerenti l’insegnamento del Latino in IV ginnasio, si è conservato per parecchi anni il sostanziale impianto gentiliano.  In questo ampio e generalizzato accesso all’istruzione le preferenze sono andate polarizzandosi verso il liceo scientifico, che è diventato di fatto una sorta di liceo “moderno”, gradito per la maggior attenzione riservata alle materie scientifiche, tra le quali è andata sempre più affermandosi la Biologia, e alle lingue straniere. Il liceo classico è cresciuto di poco, mentre in una prima fase hanno avuto un forte aumento gli istituti tecnici commerciali e industriali e quelli professionali, per subire progressivamente una flessione con una sempre più ampia frequentazione da parte dei figli degli immigrati, in concomitanza con l’aumentare del fenomeno migratorio verso il nostro paese. In questo modo gli istituti tecnici e professionali, invece di continuare ad essere canali di buona formazione tecnica con la trasmissione di una cultura generale e di competenze ben spendibili sul mercato del lavoro, anche per i collegamenti che vi erano con l’industria, hanno finito per diventare di fatto scuole superiori di serie B, in cui devono essere fronteggiati soprattutto problemi di carattere sociale, con la conseguenza che l'apprendimento è limitato, per cui l’inserimento nel mondo del lavoro sempre più problematico. Tutto questo anche perché non è stato fatto nessun progetto pedagogico e didattico per gli immigrati a livello nazionale, lasciando di volta in volta la soluzione dei problemi alle singole scuole con risorse economiche sempre più limitate. Se aperture culturali e innovazioni metodologiche e didattiche sono entrate nella scuola il merito va tutto all’editoria scolastica, che, soprattutto negli anni Settanta, si è fortemente impegnata in operazioni di introduzione delle novità culturali, in tutti i campi, nella didattica, anche se non sempre supportata dalla fiducia degli insegnanti, ragion per cui successivamente anche in quest’abito c’è stato un forte ripiegamento verso la tradizione e la semplificazione.
L’elemento rilevante è che, anche nei licei, si è venuta progressivamente instaurando di fatto una facilitazione degli studi, di tipo demagogico, con una tacita riduzione dei programmi ed uno scadimento della qualità dell’apprendimento, in quanto l'ampliamento generalizzato dell'utenza scolastica non consentiva più di operare selezioni in base a criteri che potevano essere attuati e accettati solo in una scuola elitaria. Nonostante questo, le difficoltà da parte dell’utenza giovanile sono venute sempre più aumentando, con esiti scolastici ampiamente deludenti. A questo punto è stata messa in atto la quanto mai deleteria teoria del “debiti”, in base alla quale, anche con l’insufficienza in più materie (importanti e d’indirizzo) si andava avanti comunque, fino ad arrivare all’esame di maturità, che nella maggior parte dei casi, avendo avuto per parecchi anni una normativa fortemente demagogica, come quella di essere interrogati su due sole materie (per lo più scelte dallo stesso candidato), veniva superato. Ad un cero punto, di fronte al sempre più ampio dilagare dell’impreparazione, nel tentativo di ovviare a questa situazione, si è teoricamente introdotto il principio del recupero e del sostegno all'interno della scuola stessa,  secondo cui la scuola deve al suo interno farsi carico di sostenere e di recuperare gli studenti che dimostrino difficoltà e carenze nell’acquisizione delle conoscenze e delle competenze. Principio di per sé corretto e importante, ma che richiedeva ben altri mezzi finanziari di quelli messi in campo e ben altro rigore nell'attuazione.  Fino ad arrivare alla situazione attuale in cui, davanti a indicatori di ritardo, dispersione, dissipazione allarmanti,  nessuno muove un dito (se non per tagliare le risorse destinate alla scuola) al fine di rispondere significativamente dal punto di vista della scuola a queste necessità. L’attuale Ministro Gelmini, che non continua a far altro che danni nella scuola, non ha assolutamente preso in considerazione la questione.
A dequalificare la scuola ha contribuito e continua sempre più a contribuire il peggioramento delle condizioni degli insegnanti. Ad un’ondata di entusiasmo, con progetti e innovazioni, messa in atto da una generazione di insegnanti giovani negli anni Settanta, sull’onda lunga delle posizioni di don Milani, che hanno cercato di scalzare le “vestali della scuola”, madri di famiglia carducciane, imprestate a tempo molto parziale alla scuola, è succeduta una ormai lunga generazione di insegnanti sempre meno preparati culturalmente e meno motivati.  Altro che le figure di grandi maestri, come Augusto Monti, ai tempi di Pavese! Occorre rilevare che gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati in Europa e nello stesso tempo, anche per questo, hanno perso considerazione sociale e diminuito le motivazioni professionali, soprattutto in una situazione come quella degli ultimi cinque-sei anni in cui le condizioni di lavoro (orari, numero degli studenti, carichi di lavoro, ecc.) sono notevolmente peggiorate senza una significativa contropartita salariale. A questo si aggiunge l’endemica condizione di precariato, ulteriormente aggravata dalla mancanza di criteri validi per l’assunzione in ruolo. Aboliti i concorsi a cattedre, che almeno operavano una selezione di tipo culturale, archiviata, senza motivazioni e verifiche, l’esperienza delle SSIS, ci troviamo attualmente in un vuoto normativo che vede l’immissione in ruolo unicamente sulla base di graduatorie in cui determinante è l’anzianità di servizio, a cui si aggiungono titoli acquisiti a pagamento soprattutto presso istituzioni culturali molto discutibili e la cui serietà è sovente stata messa in discussione.
Dobbiamo inoltre sottolineare quella che potremmo chiamare la solitudine della scuola. Infatti, mentre in passato esistevano altre agenzie educative di rilievo, indubbiamente di grande importanza la Chiesa con il suo tessuto delle parrocchie e il capillare associazionismo giovanile, e meno diffuse le scuole di partito (pionieri, ecc.), capaci di fornire orientamenti e chiavi di lettura della realtà, da vent'anni a questa parte la scuola si trova a dover fronteggiare, senza nessun aiuto, neppure quello delle famiglie, l'assalto diseducativo delle TV, a cui molto spesso gli stessi genitori delegano funzioni di intrattenimento-educazione dei bambini e dei ragazzi. Le conseguenze sono, da parte dei giovani, il disinteresse per la "cosa pubblica", l'individualismo, la falsa scala dei valori, fortemente legata al consumismo, il seguire modelli sbagliati, imposti dal divismo televisivo, ecc.
Per tutte queste ragioni ci ritroviamo con l'attuale ampia fascia dei diciotto-ventenni sempre meno istruiti a livello di conoscenze e competenze, meno criticamente scaltriti e, se avviati agli studi universitari, destinati ad una preparazione tecnico-scientifica sempre più settorialmente ristretta, il che diminuisce ulteriormente la capacità di valutazione della realtà nel suo insieme.
Da questo stato di cose deriva il quietismo, l’acquiescenza che i giovani d’oggi dimostrano nei confronti della grave situazione in cui si trovano a vivere, con la più elevata percentuale di disoccupazione giovanile in Europa, con un alto tasso di lavoro precario, con difficoltà a crearsi un’autonomia personale e famigliare, con prospettive a lungo termine piuttosto inquietanti per quanto riguarda aspetti importanti del loro futuro (occupazione stabile, pensioni, ecc.).  I problemi veri della loro generazione sembrano, però, lontani dal loro orizzonte, dalla loro presa di coscienza, a consolarli pare basti un cellulare ultimo tipo (magari regalato dai genitori, dagli zii o dai nonni, che con le loro pensioni sovente riescono a tamponare situazioni difficili) o un televisore ad alta definizione per vedere meglio la partita della squadra del cuore! Questo è quello che voleva e che è riuscita ad ottenere la casta al potere, anche perché la sinistra non ha saputo dare prima un indirizzo corretto alla scuola e poi non ha fatto nulla per contrastare ed impedire l’orientamento prevalente. Il fatto che nessuno tenga seriamente in considerazione che la scuola è il futuro della società fa emergere chiaramente l’atavico cinismo italico, già denunciato da Machiavelli e Guicciardini, a causa del quale non ci si preoccupa affatto del bene comune, ma si guarda solo al tornaconto individuale immediato.