sabato 19 settembre 2015

LA BUONA SCUOLA DI RENZI E' DAVVERO BUONA?

Rosa Elisa Giangoia

     Innanzitutto bisogna dire che, dopo decenni di politica del risparmio che ha danneggiato la scuola pubblica in Italia, questa riforma, fortemente voluta dal Presidente del Consiglio, che già nel suo primo discorso in Senato aveva affermato di pensare che «non ci sia politica alcuna che non parta dalla centralità della scuola», stanzia per la scuola 3 miliardi di euro e assume 102.700 insegnanti precari. Questo dato positivo, però, non è altro che la necessaria normalizzazione di una incancrenita situazione di negligenze e ingiustizie che aveva fatto sì che laureati che avevano compiuto tutto il percorso professionalmente formativo, di volta in volta in vigore, per diventare insegnanti fossero utilizzati dal governo in condizione di precariato. La situazione negli anni era diventata estremamente confusa, con concorsi statali bloccati, insegnanti “stabili” con contratti da precari, decine di migliaia di contratti di supplenza annuale: di conseguenza è risultato difficile stabilire le priorità e le garanzie dei diritti, per cui sono esplose, all’interno della categoria dei docenti, tensioni e conflitti.
    Nello stesso tempo riemergevano situazioni difficili da tempo presenti nella scuola: condizioni strutturali ed edilizie a rischio per molti edifici scolastici, la mai realmente attuata autonomia scolastica, la necessità di ammodernare le strutture e la didattica, tutte in gran parte determinate dai tagli di circa 8 miliardi di euro e dalla soppressione di circa 120.00 lavoratori della riforma del ministro Gelmini.
    Quando si inizia a delineare questa attuale riforma (settembre 2014) il Presidente del Consiglio avvia un dialogo diretto con la cittadinanza, attraverso forme di democrazia partecipata che (un po’ demagogicamente) vorrebbero coinvolgere docenti famiglie e studenti, tramite un questionario on-line e position-papers. I risultati sono senz'altro deludenti: le risposte al questionario sono solo 207.000!
    Ma nell'itinerario di elaborazione della riforma il momento di svolta avviene il 26 novembre 2014, quando la Corte Europea del Lussemburgo obbliga il governo italiano a regolarizzare i contratti precari degli insegnanti prorogati dopo 36 mesi di lavoro. Da quel momento si avvia, attraverso gli opportuni atti legislativi, il piano di stanziamento dei 3 miliardi di investimento per le procedure di assunzione. Nel disegno di Renzi avviene però un deciso cambiamento: dalla riforma scompare l’attenzione ai problemi educativi e prevale l’elaborazione tecnico-politica di un piano teso più a risolvere le situazioni dei docenti che a garantire una nuova formazione agli studenti.
    A questo punto l’iter della riforma procede veloce: il 24 giugno il Governo blinda il testo e pone la fiducia al Senato e il 9 luglio la riforma è approvata alla Camera. Di fatto la prospettiva iniziale di elaborazione condivisa della riforma è stata completamente capovolta: si è arrivati all'approvazione di un testo blindato al quale non è stato possibile porre emendamenti o discuterlo in Aula!
     Esaminiamo le innovazioni salienti
     Innanzitutto viene fortemente modificata la figura del dirigente scolastico, a cui è data la facoltà di scegliere i docenti rendendo pubblici i criteri seguiti, non solo per coprire l’organico, ma anche senza una loro classe, da utilizzare per supplenze e nel monte ore del 30% per potenziare alcune materie caratterizzanti l’offerta formativa. Se applicato con assoluta correttezza e trasparenza questo criterio di avere gli insegnanti migliori per raggiungere gli obiettivi prefissati dal P.O.F. potrebbe essere ottimale, ma c’è da fidarsi dell’assoluta correttezza e trasparenza? Saranno i fatti a dircelo.
   Inoltre il dirigente scolastico avrà a disposizione fondi per premiare i docenti che più si impegneranno e potrà scegliere un gruppo di insegnanti “collaboratori” per far funzionare e governare la scuola, cosa che, per la verità, già avveniva con le “funzioni obiettivo”. Ma resta aperto un problema: quello di individuare chi controllerà i dirigenti scolastici.
    Altre presunte innovazioni sono in realtà un ritorno al passato.
    Si dice infatti che entro il 1° dicembre dell’anno corrente verrà bandito un concorso per insegnanti a cui potranno accedere i precari non assunti, di cui entreranno in ruolo il 60%, mentre gli altri formeranno una specie di fascia di esodati che dovrebbero iniziare nuovi percorsi di formazione per partecipare a futuri concorsi, fino a quando non risulteranno vincitori. In questo modo si ripropone la situazione anteriore al 1974, quando si entrava in ruolo solo per vincita di concorso. Ma in quegli anni ci fu un enorme aumento della popolazione scolastica, specie alle superiori, che costrinse all'utilizzo generalizzato di precari (non selezionati o reduci da diversi insuccessi nei concorsi) che dopo qualche anno vennero indiscriminatamente immessi in ruolo ope legis con un notevole abbassamento del livello culturale e professionale dei docenti che fu l’inizio del decadere della scuola e del crollo di considerazione da parte dell’opinione pubblica nei confronti della categoria. Anche nel caso attuale sarà la realtà dei fatti a determinare l’evolversi della situazione, in quanto non è prevedibile il fabbisogno di docenti nel prossimo decennio, date le variabili demografiche dovute a natalità e immigrazione.
    Anche la card di 500 euro l’anno che verrà data ai docenti da spendere per “consumi culturali” ricalca i rimborsi e le detrazioni fiscali che si erano varate qualche decennio fa per gli stessi fini, ma che hanno avuto vita e attuazione brevissima per la mancanza di fondi rapidamente sopravvenuta. Speriamo che questa volta la storia non si ripeta… Allo stesso modo, dopo i corsi di aggiornamento semi-vacanze-premio degli anni ’60, negli anni ’70 e ’80 grande sviluppo ha avuto la pratica dei corsi di aggiornamento per insegnanti che ha tenuto in piedi associazioni culturali e professionali a cui erano demandati e che gli insegnanti frequentavano, con più o meno profitto, ma senza alcuna verifica, con il miraggio di scatti di carriera. Poi tutto si è dissolto… e non se n’è più parlato, come se la necessità di aggiornare gli insegnanti non fosse costante. Ora la Buona Scuola prevede una “formazione comunitaria” in servizio per i docenti a cui vengono destinati 40 milioni di euro da ripartire tra tutte le scuole. Vedremo chi li organizzerà, come verranno gestiti e soprattutto se questa volta la positività dell’aggiornamento verrà in qualche modo verificata.
   Centrale vorrebbe essere nella Buona Scuola il rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro, in quanto prevede 400 ore di stage  in aziende o enti pubblici per gli studenti degli istituti tecnici o professionali, mentre per i liceali, 200 facoltative.  Gli stage, con tempi più ridotti e organizzati in modo piuttosto dilettantesco, li abbiamo già sperimentati, con scarsi risultati soprattutto per la futura occupazione dei giovani che continua ad essere al 44%. Speriamo che ora tutto venga organizzato in modo ottimale, utile per trovare lavoro  dopo il diploma, nonostante i soli 100 milioni di euro stanziati.
   Resta comunque irrisolto il problema che i ragazzi italiani escono a 19 anni, mentre in altri paesi europei e non la soglia è di 18.
   Di nuovo la riforma prevede la detrazione fino a 400 euro per chi iscrive i propri figli in scuole paritarie, che in genere hanno rette piuttosto alte, per cui la detrazione copre una minima parte, mentre stanzia per il funzionamento delle scuola da 111 a 200 milioni di euro, che comunque non eviteranno i contributi (più o meno) volontari delle famiglie al momento dell’iscrizione ad una scuola pubblica.
   In questa riforma manca però qualcosa di molto importante. Mancano completamente la dimensione didattica, pedagogica e antropologica, nonché l’attenzione sociale. Innanzitutto non si considerano i problemi del disagio, degli alunni e degli studenti poveri, non si considera che, mentre nei paesi del nord Europa l’istruzione è completamente gratuita, in Italia ogni studente costa mediamente 700 euro all'anno alla famiglia, che sovente non è in grado di sostenerlo. Inoltre non si affronta in modo globale il problema dell’insuccesso scolastico (17%) e dell’abbandono che nel nostro paese si aggira intorno al 20%, ponendoci tra i paesi fanalini di coda dell’Ocse. Queste dinamiche si correlano anche alla condizione stipendiale degli insegnanti, se pensiamo ai premi che possono dare i dirigenti scolastici in netto contrasto con il programma di Obama (Teaching for America) che assegna stipendi più alti ai docenti che scelgono scuole difficili, socialmente disagiate e periferiche, in somiglianza con quanto era stato fatto in Italia alcuni decenni fa riguardo ai magistrati, categoria privilegiata dallo Stato a tutto danno dei docenti.
   Completamente eluso rimane l’interrogativo di fondo su quali persone e soprattutto quali cittadini vogliamo che la scuola formi e attraverso quali percorsi culturali, cosa che era ben chiara a Giovanni Gentile nel delineare il liceo classico e la sfaccettatura degli istituti tecnici. A questa domanda inoltre dovrebbe precedere l’interrogarsi sul fatto che nel nostro paese l’analfabetismo è ancora intorno al 3,5 %, mentre la percentuale dei laureati sul totale degli occupati è un sesto di quella degli USA e un terzo di quella della Francia, senza contare il fatto che la maggior parte dei nostri migliori laureati trovano lavoro all’estero, per cui noi li prepariamo per gli altri…
   Nella riforma manca uno specifico insegnamento sulla cittadinanza, inoltre le forme di partecipazione alla gestione della scuola non sono incentivate e non si promuove l’educazione ad un loro corretto uso. Manca, in definitiva, l’educazione ai valori del bene comune, ai valori del vero, del bene e del bello.
   A questo riguardo occorrerebbe affrontare la questione in profondità, con saggezza e competenza.