sabato 30 aprile 2016

LE PROVE RAZIONALI DELL'ESISTENZA DI DIO


Come si fa a provare l'esistenza di Dio?


Mattia Marini
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Risposta di Rosa Elisa Giangoia

Beato Angelico, San Tommaso d'Aquino
Illustrare le dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio richiederebbe una lunga trattazione che potrebbe essere oggetto di un corso universitario… Occorre, però, anche avere  un approfondimento pregresso su certe nozioni, come quella di causa efficiente e quella di perfezione che rimanda alla nozione di atto. Nozione quest’ultima fondamentale e che occorre recuperare nella sua esattezza, in quanto su di essa per tutto il Seicento, il Settecento e l’ Ottocento c’è stato un profluvio di equivoci e di interpretazioni tendenziose che han portato a negare la validità di alcune prove. Su questo argomento si può vedere la presentazione  a Cercare l’uomo. Socrate, Platone, Aristotele di Francesco Calvo e soprattutto leggere con attenzione il libro stesso.
Per quanto riguarda le dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio, per il momento ci limiteremo ad alcune puntualizzazioni essenziali.
Ad elaborare dimostrazioni di questo tipo sono stati alcuni filosofi medievali, in particolare Anselmo d’Aosta (1033/34 – 1109) e il grande Tommaso d’Aquino (1225 – 1274).
Anselmo riprende una linea platonica, mediata da Agostino d’Ippona. Egli, anche se concepiva la fede come fondamento di ogni conoscenza, riteneva che un’argomentazione di tipo razionale potesse convincere dell’esistenza di Dio anche chi non credeva. Per questo nel suo Monologon dimostra l’esistenza di Dio partendo dalla constatazione che, se le cose del mondo sono caratterizzate da gradi diversi di perfezione (ad esempio, a proposito del bene), ciò dipende dal fatto che esse partecipano in maniera più o meno ampia di un essere assolutamente perfetto. Di conseguenza deve esistere un ente che goda di tutti gli attributi positivi in modo perfetto, totale, completo, assoluto; tra questi ci deve anche essere l’esistenza, per cui deve esistere un ente che abbia la perfezione assoluta e la pienezza assoluta dell’essere. A suo giudizio, tanto l’ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dalla perfezione assoluta e dalla pienezza dell’esistere coincidono con il Dio della rivelazione cristiana.
Tommaso d’Aquino, partendo dalla Metafisica di Aristotele, elabora le famose “5 vie dell’esistenza di Dio” che riassumiamo brevemente:
1° via: il moto
Dato che i nostri sensi ci dicono che alcune cose si muovono ma che tutto ciò che si muove è mosso da un altro, risulta chiaro che si crea una catena tra chi muove e chi è mosso che non può procedere all’infinito per cui è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri e che dia inizio al moto. Questo è Dio.
2° via: la causalità efficiente
Allo stesso modo dobbiamo considerare che nel mondo sensibile vi è un ordine tra le cause efficienti, mentre non è possibile che una cosa sia causa efficiente di sé medesima, in quanto altrimenti sarebbe prima di se stessa. Dato che anche nelle cause efficienti un processo all’infinito sarebbe assurdo, bisogna ammettere una prima causa efficiente che causa senza essere causata. Questa è Dio.
3°: la contingenza
Dobbiamo rilevare che tra le cose ci sono quelle che possono essere e quelle che possono non essere. Questo vuol dire che in un dato momento non c’era niente, ma se così è, anche ora non esisterebbe nulla, in quanto ciò che non esiste non può iniziare ad esistere se non per opera di qualcosa che già esiste. Di conseguenza, dato che tutti gli esseri sono contingenti, cioè possono esistere o meno, occorre che nella realtà vi sia qualcosa di necessario, cioè un essere che sia di per sé necessario e che non tragga da altri la propria necessità di esistere, ma sia esso stesso causa di necessità per gli altri. Questo è Dio.
4°: i gradi di perfezione
Ci rendiamo conto che nelle cose si trovano attributi positivi (il bene, il vero, il nobile, ecc.) in un grado più o meno elevato, determinabile sulla base di quanto si accostano più o meno a qualcosa di sommo e di assoluto. Deve quindi esistere qualcosa che abbia in sé tutti gli attributi della perfezione in grado pieno, totale, sommo e assoluto. Ora, dato che ciò che è massimo in un dato genere, è tale anche in quanto ente, quest’ente è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, per cui vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di ogni altro attributo positivo di cui le cose della realtà godono in modo più o meno elevato. Questo è Dio.
5°: finalismo
Noi possiamo constatare che alcune cose, come i corpi fisici, pur privi di conoscenza, operano per un fine, in quanto agiscono quasi sempre allo stesso modo per raggiungere la perfezione, per cui si deduce che raggiungano il loro fine non a caso, ma per un’insita predisposizione. Dato che chi è privo di intelligenza non può tendere al fine se non in quanto diretto da un essere conoscitivo e intelligente, bisogna dedurre che vi è un qualche essere intelligente dal quale tutte le cose naturali sono orientate al loro fine. Questo è Dio.

martedì 26 aprile 2016

SINTESI DELL'INTERVENTO IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DI "CERCARE L'UOMO" - Genova 9 aprile 2016 --


Carlo Biancheri


Cercare l’uomo. Socrate, Platone, Aristotele è un libro importante perché è contro-corrente: ripercorre la filosofia  moderna e contemporanea, alla luce del pensiero di Aristotele. Francesco Calvo, allievo di Emilio Garroni, conosceva come pochi la filosofia  moderna, in particolare Kant, l’idealismo ma anche  la filosofia contemporanea, la fenomenologia e Heidegger, Russel e Popper, tra gli altri. Tutti hanno scritto su Aristotele, ma come per il tomismo che è comparabile ad un grande dormitorio pubblico dove la gente entra ed esce a  tutte le ore e si sa vicino a chi ci si addormenti (S. Tommaso) ma non si sa vicino a quale filosofo ci si svegli…, ciascuno lo legge a suo modo. Calvo lo conobbe, dapprima, tramite un heideggeriano, Pierre Aubenque (Le problème de l’Être chez Aristote), ma subito affrontò tutti i testi per anni, insieme al prof. padre De Vos, cui il libro è dedicato.
Anche in cultura vige il “politicamente corretto” e chi si adegua al pensiero dominante ha la sua retribuzione: viene riconosciuto come filosofo. Così, per dirla con Rémi Brague (La sagesse du monde), la filosofia  non è più la ricerca della verità ma è una epistemologia, anzi è divenuta  una sorta di terapia che regola le diverse opinioni disciplinandole democraticamente.
Già Molière si era scagliato contro il conformismo degli opportunisti con Tartufe e contro quel linguaggio comune della cultura del tempo che rasentava l’idiozia. Ne Les précieuses ridicules i piedi si chiamano les chers souffrants, (i cari sofferenti) e le signore in visita parlano seriamente tra loro della pena che le scarpe strette provocano ai “cari” in questione. In questo contesto  culturale di assiomi indiscussi in cui viviamo è “gran tempo”  quello di tornare al Maritain di Le paysan de la Garonne, il contadino della Garonne che sfacciatamente mette i piedi nel piatto in cui mangia, cioè parla senza reticenze e convenzioni.
Wittgenstein del Tractatus logico - philosophicus a un certo punto dice in modo icastico che «in filosofia o si è realisti o si è idealisti» (tertium non datur).
Per gli idealisti, la vera realtà è l’intelligibile e per Hegel la filosofia dovrà trasformarsi in scienza, mentre per Calvo la filosofia è l’amore della sapienza, lo stupore delle cose, come dice Aristotele, il che cos’è della cosa; a Popper, invece, non interessa il che cos’è delle cose per il rifiuto delle essenze, rimpiazzate dalla funzione.
Calvo ritiene indispensabile la ricerca di qualcosa di oggettivo che vada oltre la pura personalità individuale, mentre per Platone l’Essere è noetico, partendo dal reale. Essere è conoscere, diranno poi gli idealisti, rifacendosi a Platone.
Per Calvo, il pensiero è tutto un’interrogazione e, contrariamente a quel che diceva Kant, l’utilità della cosa non si giudica dal risultato. Per Kant la fondazione del reale è discorsiva: vero/falso,  mentre il noùmeno è il principio di causalità ‘per noi’,  in quanto la realtà del noùmeno è un enigma inconsultabile della “x” trascendentale. E così si instaura la schizofrenia della legge della necessità e di quella della libertà che sarebbe la coscienza: un postulato, un atto di fede… Come si forma? Si tratta di innatismo?
Il fine della scelta è l’azione, mentre quello della conoscenza è la verità, ma poi le cose sono dette “in atto”… e in questo ambito è possibile trovare una sorta di mediazione.
Ci si lamenta del soggettivismo corrente che ha generato uno scetticismo per cui tutto è funzionale e non interessa cercare il Vero ma ciò che prevale, l’opinione dei più: pochi scrivono che sono  almeno trecento anni che viviamo in un’abbuffata soggettiva in cultura.
Al Laterano, l’università del papa, c’è una famosa  professoressa che inizia il corso di filosofia dicendo: «Io sono certa di esistere perché penso… ». Evidentemente, come Cartesio, dovrà affrontare il problema del ponte… tra la realtà esterna ed il soggetto. Essere è noèin (conoscere) ed Essere ed esistere sono la stessa cosa nel pensiero idealistico (nel senso di Wittgenstein) . Anzi, l’uomo è il pastore dell’Essere e il Dà sein, “quel che ti succede qui” è l’Essere stesso. C’è sommessamente da chiedersi come si fondi un’etica, e prima ancora un’antropologia, una cosmologia su queste basi… Natura e cultura… La natura è un dato culturale, aveva detto Kant. I massoni tedeschi come Lessing e Herder facevano una battaglia contro la scolastica del tempo proprio per distruggere il concetto di natura. Ci sono riusciti? Edgar Morin ha scritto un famoso libro, Le paradygme perdu: la nature humaine, non a caso.
Brague descrive molto bene come per Fichte la natura costituisca la condizione per l’azione della libertà umana. Per Hegel, lo spirito pone la natura e  la  pone come suo mondo proprio perché è lo spirito che crea il reale.
Del resto la natura dei medievali, che ne vedevano un riflesso di Dio  mediante la creazione, è stata abbandonata da un pezzo; per Stuart Mill la natura non è più modello dell’attività morale perché è violenta; mentre per Sade la natura è criminale. Schopenhauer dirà che la morale cerca il punto dove le forze contrarie si annullano e fà l’esempio dei porcellini d’India che si combattono ad un tempo ma che hanno anche bisogno del calore e quindi stanno alla distanza più conveniente che impedisca la distruzione e che nel contempo fornisca il calore: mero utilitarismo; Adam Smith  è influenzato dalla teoria newtoniana per l’enunciazione della morale.
Già al tempo degli Epicurei, che avevano una visione negativa del reale, si diceva che quel che conta è la filìa, l’amicizia tra gli uomini che in termini moderni chiameremmo democrazia; è più importante  della Verità che è inaccessibile e, quindi, la filosofia diventa terapia ed accordo tra gli uomini, non ricerca della Verità. Non siamo lontani dal pensiero debole…
Per gli Gnostici, poi, noi siamo gettati in un mondo ostile dal demiurgo per cui alla natura non è riconosciuta alcuna bontà;  i neo-platonici, come Plotino, invocano una fuga degli uomini verso il Padre, essendo ora in una realtà decaduta, quella del corpo.
La scienza moderna abbandona la natura a favore della funzione razionale, il valore di cosa in sé della cosa non interessa. Cartesio, col razionalismo moderno, propone di abbandonare «ces formes ou qualités dont on dispute dans les écoles» (ma si riferiva agli eccessi razionalistici suareziani dei gesuiti…): lasciò in eredità alla Metafisica, che ne veniva inaugurata, problemi ancora maggiori di quelli che voleva risolvere. Kant, per mantenere aperta la via cartesiana, dichiara illusoria ogni sovrastruttura di  sostanza per l’anima, per il mondo, per dio, circoscrivendo l’ambito della fondazione egologica al sensus communis trascendentale delle categorie che oggi è stato  convertito nel senso comune del linguaggio. Ciò che è inattuale è superato… anzi  nel nostro tempo vige l’illusione positivista del continuo accrescimento del sapere… che sembra inesauribile; oppure l’illusione del progresso della Storia di matrice idealista… Eppure rimane la domanda: dopo Auschwitz (Annah Arendt) e dopo l’Isis, che cos’è l’uomo’?
Dopo Hume e la sua legge non si può più passare da ciò che è descrittivo a ciò che è prescrittivo. Come uscirne?
Qui  si situa l’importanza della ricerca di Calvo  da gran filosofo qual è. Egli cerca il fondamento, la sostanza, l’upokèimenon, cioè il sostrato, un riferimento che si fondi oltre la prospettiva della soggettività.
Compito arduo  nel contesto del cosiddetto pensiero critico moderno. Per Calvo la sostanza non è una cosa ma un principio formale che costituisce l’individuo.
La parola metafisica, oggi, è sinonimo di ectoplasma, ma pochi sanno che la sua origine dipende da Andronico da Rodi che ritrovando, dopo secoli(!), i libri di Aristotele si trova di fronte a libri che non sapeva come chiamare e che trattavano dei primi principi e venivano dopo quelli della Fisica e così li chiamò: Metà tà Fusiká, dopo i libri della Fisica… altro che fantasmi…
 Nel linguaggio comune l’astratto equivale ad  irreale : i politici, si fà per dire…, ripetono: parlo concretamente… eppure usano parole astratte,  come giovinezza, solidarietà, ecc…
L’astrazione, alla base della conoscenza in Aristotele, non è una mera conversio ad phantasmata perché in tal caso trasformeremmo Aristotele stesso in Locke (l’intelletto per immagini, ectipo di cui parla Kant) ma sono gli atti della conoscenza che rilevano nella loro base metafisica .
E allora forma e materia (che non è “quella delle fabbriche”, né quella signata quantitate che per i medievali individuava il singolare ma non dice nulla sulla forma, l’essenza di un essere sostanziale) e potenza ed atto (co-principi metafisici) qualificano la sostanza: la forma si può definire come la materia in atto così come la materia è la forma in potenza. Siamo fuori dall’ambito logico perché siamo in quello reale. Non esistono in sé la potenza e l’atto ma esistono nell’uomo ed in ogni sostanza. La forma è il limite formale  che incontra l’attuarsi.
La sostanza non è una cosa perché non si spiegherebbe che ciò che è più conoscibile per noi non è più conoscibile in sé.
Qualche riflessione sul bene. Per Platone è esterno all’uomo, infatti, in politica  il re filosofo  sa quale sia il bene per tutti e ciascuno deve esser contento di quel che gli tocca: è giustificazione della dittatura?
Aristotele centra tutto, invece, sulla convenienza metafisica per cui l’ìdion, il proprio, e il comune, sunòn, tendono a coincidere. In questo senso si fonda la democrazia perché si cerca sempre di far convergere il bene dell’individuo e quello comune.
Aristotele, dice Calvo, è contro l’idiosincrasia, dei moderni diremmo noi, che equivale a quel che dicevano i sofisti, criticati da Platone ma neppure concorda con un bene esterno all’uomo perché l’Essere non è univoco, ecco il punto, e questa non univocità è connessa con la potenza e l’atto. La scelta, ma di scelta metafisica deve trattarsi, cioè basata sulla propria natura profonda, nasce in modo dialettico. Aristotele critica la comunione delle donne e dei fanciulli che vigeva a Sparta perché dice che se qualcosa è di tutti nessuno se ne occupa e invece centra la sua antropologia sul fatto che l’uomo è, per sua natura, in relazione, è sociale: chi vive solo è un dio (autarchico) o una bestia. Si realizza con la famiglia che poi diventa villaggio e poi diventa città/Stato. E qui si determina il bene comune in una sorta di dialettica ma non delle opinioni, come si fà adesso dove la democrazia si conta… E se si decidesse da parte della maggioranza di ammazzare tutti i bambini? Dove sta il limite?
Si capisce allora l’importanza del tò tì en èinai, (ciò che aveva da essere)… per il fondamento che qualifica la sostanza.
L’Essere è àition tou èinai perché per Aristotele si tratta di nozione risolutiva ed analogica mentre per Platone la partecipazione all’idea è un fatto nozionalmente comune. Per Platone il non essere è una pura differenzialità logica, per Aristotele,  che parla di potenza di cui non si potrebbe dire nulla…, la differenzialità è immanente nella cosa.
L’essenza è la pròte ousìa, il principale della sostanza non è specie universale e l’atto è la tendenzialità del tò tì en èinai. Essere sé stesso come forma non generica ma individualità.

Ma noi viviamo in un contesto in cui tutto è trasformato in logica o è inconoscibile: lo scetticismo contemporaneo cui Calvo si oppone con argomenti forti, come scrive Ricoeur: un grande tessitore.

domenica 24 aprile 2016

AL PRONTO SOCCORSO


Carlo Biancheri e Rosa Elisa Giangoia

Se l’Alighieri avesse avuto anche una sola esperienza di ingresso e permanenza in un qualunque Pronto Soccorso di un attuale ospedale italiano, molto probabilmente ne avrebbe fatto l’ambiente di un suo luogo di punizione infernale, magari per una delle Malebolge. Ai suoi tempi, però, dobbiamo ricordarci che era ancor peggio, dato che non c’era quasi nessuna forma di assistenza, se non affidata all’occasionale pietosa carità cristiana. Occorre, quindi, dar atto dell’enorme progresso che la medicina e l’assistenza sanitaria hanno fatto, soprattutto da quando, in base all’evangelica parabola del Buon Samaritano, sono stati superati il rifiuto e l’emarginazione del malato, tipici del mondo classico, ben rappresentati dal Filottete di Sofocle, e si è iniziato a prendere coscienza della necessità della cura e dell’assistenza nei confronti dei malati, dal che è nato tutto il sistema ospedaliero, dai primi Hôtel-Dieu (straordinario quello di Beaune, in Borgogna, della metà del XV secolo) fino all’attuale organizzazione, ormai completamente laica.

Noi due abbiamo avuto recentemente esperienze nei Pronto Soccorso di due diversi ospedali, a Roma e a Genova che vogliamo raccontare, per fare poi qualche considerazione…

Carlo
Era dicembre, ma sembrava marzo a motivo dello sconvolgimento del clima, dopo un autunno senza piogge. Non era quel che gli anglosassoni chiamano Indian Summer ma una fresca mattina di primavera nel cuore di Roma, vicino al mausoleo del crudele Augusto che dopo la battaglia di Azio si fece costruire la tomba per sé, per gli eredi designati e premorti e per la sua amata Livia che era stata portata al nuovo connubio dal suo primo marito, sebbene incinta di Druso. Anche i figli di Giulia vennero sepolti lì, ma non lei, perché indegna, come Nerone: si accoppiava con tutti dopo esser stata obbligata dal padre a sposare un anziano come Agrippa e così morì in esilio su un’isoletta, forse di inedia… Anche l’Ara pacis, sopra la Ripa Grande, magnificamente disegnata dal Piranesi, era nei pressi o meglio quel che resta di essa, giacché il ladro Bonaparte ha portato al Louvre il retro dell’Ara stessa, bellissimo, peraltro. Procedevo  verso via Lata, al tempo di Augusto, ora via del Corso, dove gli Ebrei erano costretti a correre svillaneggiati dal popolino feroce, sulla mia bicicletta francese, solida e non costosa, grazie al mercato interno dell’Unione Europea o almeno di quel che resta…
È un attimo quando vengo strattonato al braccio sinistro da una city car nera in accelerazione: la bicicletta casca sulla destra e io volo sulla sinistra e mi trovo in mezzo alla carreggiata per terra, con il casco che ha attutito la botta alla testa. Il montone, che mi aveva protetto dall’inverno bulgaro a -20°, fu provvidenziale nella caduta. Mi capitava per la prima volta, a settant’anni, di trovarmi steso sull’asfalto: non si sta male. Subito intorno un capannello di gente premurosa, stupefacente in un tempo di egoismo selvaggio: «Sono un medico. Ha perso conoscenza?». «No, non mi pare…». «Non si muova» e mi slaccia il casco. «Non si preoccupi - dice una donna- ho già chiamato l’ambulanza e i vigili», mentre io tiravo fuori dalla tasca il telefonino e chiamavo: «Barbara, sono per terra in via Tomacelli…». «Dove ti portano? Al Santo Spirito?». «Pino, sono bravi? Forse ho il femore rotto…». «Come tieni il piede, in alto?». «Sì!» «Allora non è il femore…». Di nuovo il medico: «Riesce ad alzare le gambe?». «Una sì e una no…». E poi un altro: «Ha le chiavi della bicicletta?». «Sì! grazie, ma spostatemi di qui, blocco il traffico…». «Non si preoccupi delle macchine… » e una voce femminile chiede: «Ma come è successo?». «Una macchina nera mi ha investito… Sì, sì ho visto!… e mi giro: è quella!». «Quella macchina è mia - dice una donna vestita da amazzone, con lunghi orecchini - ma io l’ho vista volare dallo specchietto…». «No! signora, lei mi ha investito» rispondo con voce flebile… Silenzio… Arriva l’ambulanza, modello 2000, faccio appena in tempo a leggere le prime due lettere della city car nera, una Smart, e vengo caricato sulla “carrozza” e comincia il tragitto sui residui sampietrini di Roma. Avevo l’impressione di trovarmi su uno di quei carri traballanti del West americano nell’Ottocento. Poche domande da parte del personale, codice giallo, così si risparmia la risonanza magnetica che non viene eseguita. Arriviamo nell’ospedale che deve accogliere i feriti in caso di attentato da parte dell’Isis in piazza S. Pietro durante l’Anno Santo. Subito le lastre: ambiente allegro, stanzette, corridoi, un gran freddo, in quanto mezzo svestito con una copertaccia addosso ma, per fortuna, col montone, perché altrimenti una polmonite era  pressoché certa. Un andirivieni di gente, non saprei dire verso dove…
Poi inizia la lunga attesa al pronto soccorso alle ore 13.45.
Uomini donne, tutti assieme appassionatamente! «Ahi, fatemi qualcosa, non ce la faccio più!» si lamentava una… «Che c’è?» rispondeva uno che ricordava un monatto. In effetti, i volti corrispondevano a quei personaggi del Manzoni  induriti e insensibili alle sofferenze altrui, con le sopracciglia trattate, come fanno i giovani uomini adesso… Uno per la verità era più umano, un po’ come quello che gridò dietro a Renzo: «Scappa, scappa, povero untorello! Non sarai tu a soppiantare Milano». Aspetta, aspetta… non succede nulla… Viene Barbara, viene Giovanni trafelato, possono stare pochi minuti... Non mi posso muovere e chiedo al monatto dal volto umano acqua, gli arnesi per le necessità corporali…; ero su una barella altissima ma, essendo abituato a cavarmela da me, mi arrangiai da solo per le mie necessità, sebbene una gamba fosse immobile. Ciò incuriosì l’inserviente come se avessi battuto un record sportivo, perché il pappagallo era per terra. Aspetta, aspetta, alle 15.30 vengono i vigili con barba lunga, mai visti sul luogo dell’incidente (mi è stato poi spiegato che c’è una macchina sola per gli incidenti nel centro di Roma per un ambito di 20 km…) per strapparmi una firma con la quale mi notificavano che dovevo presentarmi entro cinque giorni vicino al Circo Massimo per spiegare quel che era successo. «Come vengo? – dico - In elicottero?». «No, non si preoccupi, lei ha diritto ad ottenere una proroga di quaranta giorni…» mi spiegano. Ho dovuto chiedere la proroga! Chiedo varie volte se mi visitano e scopro così che c’è un solo ortopedico, è sabato pomeriggio…, e poi era venuta una famosa conduttrice di programmi televisivi, la nuova aristocrazia, che era naturalmente stata visitata subito e, infatti, i monatti in questione gridavano il suo nome che taceremo per carità di patria…
Finalmente alle 19.20 mi portano nella sala affollata e cioè lo studio dell’ortopedico che mi dice: «No, lei non ha nulla di rotto ma c’è qualcosa… Occorre fare un’ecografia.» E qui inizia la discesa all’inferno. Viaggio in corridoi  del tipo rifugi bellici: i pellegrini in caso d’attentato, pensavo tra me, se non muoiono in loco,  muoiono qui… L’ecografo stava per smontare  e la macchina dell’ecografia, situata in un locale fatiscente che sembrava un deposito del servizio dei rifiuti urbani, era malfunzionante ed antidiluviana. «Non si vede nulla perché c’è tanto sangue», il responso.
Torniamo per i gironi infernali nell’affollata stanza del demiurgo/ortopedico e qui succede che squilla il telefono, un lutto per il medico che piange e tutti a fare le condoglianze, paziente incluso, cioè io. «Non importa». Poi aggiunge: «Lei deve essere operato ma non si può fare prima di tre giorni anche se è urgente…». «Ah! mi fà male anche la spalla». «Sì, ma le fà male solo sopra: non rileva…». Scoprirò poi che si era creata una cisti per la caduta. Intanto, dopo le mie letture sulla mala sanità, pensavo febbrilmente sul da farsi e, affidandomi alla Provvidenza, osai dire: «Scusi, dottore, in passato ero stato operato dal Professor…». «Ah! Lei è un libero cittadino! Se vuol andare via faccia pure, però io scrivo che deve esser ricoverato in altra struttura ospedaliera e non può aspettare neppure una settimana. Del resto qui non c’era posto, vero?». «Sì! - risponde l’infermiere prono - lei deve trovare un posto di ricovero in regione». A quel punto io già pensavo ai monti del Viterbese o alla campagna di Velletri con un famoso chirurgo in grado di effettuare un’operazione rivelatasi nel prosieguo assai complessa… Uscito dalla stanza col foglio di dimissioni in mano, sempre in barella, noto resistenza per aiutarmi a trovare un’ambulanza… Capisco di aver provocato offesa all’amor proprio per la mia opzione di uscire dal loro circuito ospedaliero, ma ero pure mal ridotto con un’immobilizzazione della gamba troppo stretta. «Non gonfia?» avevo chiesto. «No, stia tranquillo è libera…» mi avevano rassicurato e, infatti, il giorno dopo era la zampa di un elefante….
Grazie ai buoni uffici ed alla diplomazia di Giovanni, uno di quelli che mi figuravo come monatti ci dà una lista di croci bianche, rosse ecc… con i numeri telefonici… «Deve aspettare tre ore…» mi dicono dal centralino della prima. «Va bene, veniamo» risponde un’altra… e dopo quaranta minuti… arrivano. Ma l’autista era peruviano: «Que suerte! Anche mia cognata è di Lima!» gli dico. Purtroppo non conosce Roma e così Giovanni, proveniente da un paese dell’Est, va avanti con la sua macchina e guida l’ambulanza… trovata fortunosamente il sabato sera nella cosiddetta Roma Capitale. Che avesse ragione Gioberti con la federazione?
A farla breve, sono stato operato in clinica da un luminare due giorni dopo al quadricipite, potendo sostenere la spesa e grazie all’assicurazione.
E che succede per chi non può? Torniamo al tempo di Esmeralda, agli sciancati che si affollano attorno a Nôtre Dame?
Post scriptum: l’investitrice se n’è tranquillamente andata senza aver lasciato le generalità…

Rosa Elisa
Qualche giorno fa, senza sapere bene come sia capitato, mi sono ritrovata per terra in casa mia, in cucina, con un taglio in testa da cui perdevo molto sangue. Mi sono precipitata ad aprire la porta di casa e a chiamare Sabrina, la portinaia, che è subito accorsa e ha cercato la mia vicina di casa, Liliana, medico e amica carissima. La ferita era profonda per cui me l’hanno tamponata con il ghiaccio e avvolto la testa in asciugamani in attesa che arrivasse l’ambulanza per portarmi al Pronto Soccorso dell’Ospedale Galliera a Genova. L’attesa, per fortuna è stata breve e il viaggio rapido, anche se l’ambulanza, come tutti i mezzi così alti, scrolla in modo inopportuno.
Appena lasciata  la sedia pieghevole su cui mi avevano trasportata gli addetti del 118, i due infermieri, che mi avevano trasferita sulla barella, hanno iniziato a litigare con il milite del 118 su chi dovesse alzare la barella, dopo che era stata abbassata per farmi stendere. Mentre rimanevo con la barella sul pavimento la mia mente andava ai diavoletti infernali del canto XXI dell’Inferno dantesco, ovviamente per deformazione professionale!
La controversia, per fortuna, non è durata molto, perché il milite del 118 è andato fuori a chiamare il suo collega che era rimasto sull’ambulanza (forse non doveva rimanere incustodita?) e così sono stata sistemata in un angolo del Pronto Soccorso, preoccupata di dire qualcosa a Liliana che gentilmente mi aveva accompagnata ed era rimasta nell’affollata sala d’attesa, per cui ho contravvenuto al divieto di usare il cellulare e le ho fatto una rapida telefonata.
Anche se un po’ lentamente le procedure sono andate avanti con la sutura, gli esami vari fino alla TAC: niente da dire, medici e infermieri professionali e cortesi, quel tanto che dà l’idea che in questo ospedale, nato dalla munificenza della Duchessa di Galliera e retto dalla Curia diocesana, perduri una spolverata di cristiana misericordia. Poi la diagnosi di trauma cranico con possibilità del sopraggiungere della commozione celebrale e allora … l’attesa “in osservazione”.
Questa è stata la fase peggiore, dalle coloriture infernali. Sistemata su una scomodissima barella, affiancata a molte altre su cui uomini e donne, con patologie diverse, anche gravi, stazionavano già da diversi giorni e notti. Lamenti, grida, parole sconnesse, rumori vari, scarsissima assistenza, mancanza di separazione tra uomini e donne, nessuna privacy, spostamenti frequenti per sistemare i nuovi arrivati, vista aperto sull’accesso al Pronto Soccorso, difficoltà a rimanere sulla sempre più scomoda barella, divieto dell’uso dei cellulari, nessuna alternativa in attesa del liberarsi di un posto letto nel reparto o delle dimissioni.
Dato che in Italia i posti letto sono 4 ogni mille abitanti (a differenza del Giappone dove sono 14, della Germania dove sono 8 e della Francia dove sono 7), magari ci vuole anche un po’ di tempo prima che se ne renda disponibile uno, come sappiamo dai frequenti fatti di cronaca anche con spostamenti da un ospedale all'altro ed esiti conseguenti purtroppo drammatici.
Molto disagevole, se non drammatico, è trascorrere anche una sola notte su una barella al pronto Soccorso. Aspettavo con ansia l’esito di tutti gli esami, già sapendo che, in caso di necessità di ricovero, avrei dovuto attendere un posto-letto libero, magari a livello regionale (da La Spezia a Ventimiglia…), come mi era successo qualche anno fa quando mi ero fratturata la spalla. A consolarmi solo l’idea che qualche giorno in clinica me lo potevo permettere…
Per fortuna, per me non ci sono state complicazioni e così ho potuto ritornare presto a casa, ma l’impressione negativa di disagio mi è rimasta a lungo.
Per fortuna, per me non ci sono state complicazioni e così ho potuto ritornare presto a casa, ma l’impressione negativa di disagio mi è rimasta a lungo.

Sulla base di queste esperienze, ci si rende conto che, fin dal primo approccio, c’è da mettere in discussione il sistema sanitario nazionale con la questione delle priorità a cui assegnare le risorse dello Stato, quelle che si costituiscono con l’alta tassazione a cui noi tutti in Italia siamo sottoposti. Qualche volta, però, per migliorare la situazione dei pazienti potrebbe bastare anche poco. Ad esempio, l’Ospedale Galliera di Genova, come molti altri che in Italia dispongono di strutture architettoniche dei secoli scorsi, ha corridoi enormi, ovviamente inutilizzati per tutta la loro ampiezza, per cui penso che non dovrebbe essere difficile impiegare anche solo una piccola parte di questi spazi (con paratie o sistemi di tendaggi, come nei reparti) per rendere meno problematica la degenza di chi, dopo la diagnosi al pronto Soccorso, deve rimanere in attesa di un posto letto.

Ma piuttosto è tutto il sistema dei Pronto Soccorso che andrebbe messo in discussione e rivisto, in quanto oggi rappresenta nel nostro sistema sanitario l’unica possibilità di contatto medico in caso di incidente o di malore, non essendo i medici di base disponibili se non in limitati e rigidi orari. Forse qualcosa si sta muovendo, o almeno si sta prendendo consapevolezza di questa situazione, in quanto Renzi ha recentemente ipotizzato ambulatori aperti giorno e notte, con ovvio alleggerimento dei Pronto Soccorso, ma lui parla, parla e sappiamo che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare!”.