lunedì 22 febbraio 2016

UMBERTO ECO, IL MAESTRO DEL NULLA


Rosa Elisa Giangoia

A differenza di quanto si poteva leggere ieri su “la Repubblica” con la scomparsa di Umberto Eco non mi sento affatto più povera, perché tutta la fantasmagorica costruzione intellettuale dello scrittore non aveva altro approdo che il Nulla.
Questo lo si capiva bene fin dalla sua prima opera, il suo primo romanzo, Il nome della rosa (1981), con il quale aveva compiuto il grande salto dalla cultura accademica alla fantasia narrativa con la quale, grazie anche alle sue raffinate e affilate armi dell’abilità comunicativa, poteva trasmettere ad un ben più vasto pubblico il suo “messaggio”, cioè il messaggio del Nulla.
Forse non molti l’avevano capito, anche perché, nonostante la fortuna mondiale di questo romanzo, non credo che tutti coloro che l’hanno avuto in mano, attratti dall’accattivante copertina della prima edizione, pur stuzzicati dalle vicende tinte di intrigante giallo, siano riusciti a superare le secche delle tante disquisizioni dottrinali e siano approdati all’ultima pagina del romanzo, in cui viene svelato «il sugo della storia», ma non in modo diretto, come avviene ne I Promessi Sposi, ma in maniera piuttosto criptica, attraverso l’ esametro latino Stat rosa pristina nomine, nuda nomine tenemus che rimanda per ripresa di vocaboli al titolo del romanzo, onde creare attraverso un calembour un senso valido per il titolo e per il romanzo nel suo insieme. Tutto questo per dire che noi uomini possediamo solo i nomi, cioè delle pure e semplici parole, che pronunciate o scritte, non dicono nulla al di là del loro suono o dei segni delle loro lettere, in quanto non sono in grado di significare nessuna verità. Della rosa abbiamo quindi solo il nome, come di tutto il resto, quindi anche di Dio, che, come si dice, poche righe sopra l’esametro citato è un puro nulla («Gott ist ein lautes nichts»). In questo modo Eco con questo romanzo non si fa tanto portavoce del nominalismo, ma piuttosto di quel nichilismo, che ora, a oltre trent’anni di distanza, possiamo vedere essersi negativamente insinuato e diffuso nella mentalità con le conseguenze negative che si possono facilmente rilevare, tanto da poter definire Eco “un cattivo maestro”.
Di conseguenza tutta la sua scrittura sarà fatta di parole vuote, recuperate dal passato, reperite dal presente, inventate per il futuro, combinate abilmente per creare una fantasmagoria di situazioni, di immagini e di personaggi, senza consistenza, in un dinamismo da caleidoscopio, sostenuto da quella enciclopedica cultura, fatta soprattutto di immensa e straordinaria conoscenza di testi che va riconosciuta ad Eco. È però una cultura che andrebbe definita con il termine tardo-antico di curiositas, cioè come accumulo di sapere, senza un centro che dia senso, in un fluire in cui tutto si compone, scompone e ricompone. In questo, fondamentale è la memoria, tanto valorizzata da Eco, ma, come si vede nel romanzo in cui porta alle estreme conseguenze le sue capacità memoriali e combinatorie, La fiamma della regina Loana, tutto si può possedere  nella memoria, tutto si può perdere e tutto si può riacquistare, mantenendo tutto sullo stesso piano, senza valutazioni, senza scala di valori, senza distinzione tra ciò che è vero e ciò che è inventato, in quanto la verità «non è da nessuna parte», per cui verità e falsità si vanificano in una neutralità che le annulla.
In questo universo mentale di Eco tutte le cose, ed anche noi stessi, provengono da un caos iniziale, si materializzano nelle fantasmagorie delle apparenze individuate da nomi privi di senso e sono destinate a finire nel nulla indifferenziato del caos finale, come indica metaforicamente il grande incendio con cui si conclude Il nome della rosa che riduce in cenere l’abbazia, con i suoi abitanti, insieme agli animali, agli oggetti, ai libri, a tutto: evento questo previsto da Adso, il narratore della storia, in un sogno in cui aveva visto rovesciarsi e confondersi tutto, persino Cristo con Giuda.
La realtà, in questa sua inconsistenza e insignificanza, non può che far ridere: questo è il messaggio che Eco ha voluto lanciare fin dal suo primo romanzo con il sovra-significato che ha attribuito ad un libro (perduto o forse piuttosto mai scritto dal suo autore), il secondo libro della Poetica di Aristotele, che, dopo le rapide caratterizzazioni della commedia, avrebbe dovuto (o potuto) approfondire il tema del riso, capace di scardinare la realtà, in quanto avrebbe insegnato a ridere di tutto, anche delle cose più serie e importanti, quali la santità e il peccato, nonché l’Incarnazione per cui avrebbe eliminato la paura del peccato. Questo libro diventa il centro de Il nome della rosa, perché avrebbe potuto liberare la “verità”, mentre verrà soffocata dato che anch’esso perirà nell’incendio che tutto ha incenerito.
Di tutto questo nel libro della Poetica di Aristotele non c’è nulla, nemmeno un qualche minimo accenno recuperabile da qualche tradizione indiretta, per cui è una invenzione tutta romanzesca di un Aristotele che Eco si costruisce, in netto contrasto con quanto conosciamo del pensiero del filosofo greco, per farne l’inventore e il capostipite della linea nominalistico-nichilistica, secondo cui non esiste nulla di vero, quindi nulla di serio, fatta propria da Eco stesso.
Se tutto è “risibile” e “ridicolo” non resta che «una verità dal sapore di morte».
Una letteratura che si faccia veicolo di tutto questo non ci piace e non ci interessa. La letteratura deve aumentare la nostra consapevolezza umana, deve far crescere la persona umana che è in noi, deve aiutarla, pur attraverso l’esperienza del bene e del male, a raggiungere la pienezza della sua natura, quella ben tratteggiata dal vero Aristotele, per la quale indica anche la strada, quella della “scelta” che mira al bene, fino al bene sommo, che si acquisisce con l’esercizio della virtù e che determina il conseguimento della felicità. Questo è l’Aristotele che noi amiamo, non quello arbitrariamente inventato dal “cattivo maestro” Umberto Eco.