martedì 15 aprile 2014

DOVE VA LA LETTERATURA?

Rosa Elisa Giangoia

L’articolo di fondo di Eugenio Scalfari pubblicato su “la Repubblica” di domenica 13 aprile prendeva spunto da un testo poetico, Il brindisi di Girella, come monito ed esempio per proseguire con considerazioni sull’attuale momento politico. Oggi potremmo considerare piuttosto inconsueto mettere in rapporto la poesia con la politica, ma così non è stato in passato, come dimostra questo testi di Giuseppe Giusti che Scalfari ha certamente fatto riemergere dalle sue memorie degli anni di scuola, quando questo poeta aveva un posto di rilievo nel canone letterario, per essere poi scalzato da scrittori più recenti  in base a valutazioni la cui opportunità può senz’altro essere messa in discussione.
Scalfari comunque ci riporta a considerare la stretta connessione che storicamente è esistita in certi periodi tra la produzione letteraria e la situazione politica, connessione che in altri momenti è venuta allentandosi fino a scomparire, il che ci induce a riflettere su quali delle due situazioni siano state più positive. Basta scorrere rapidamente i secoli della produzione letteraria italiana. Quando alla poesia d’amore d’imitazione provenzale dei Siciliani e dei Toscani si è affiancata la voce di poeti dalla robusta tempra civile, c’è stata la riscossa dei comuni italiani contro il dominio degli imperatori germanici ed anche la fede cristiana ha trovato la sua voce di autenticità in poeti come Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi, in momenti difficili per la Chiesa. E poi Dante, persino troppo sicuro ed autoritario nel distinguere il bene dal male e nel giudicare singoli personaggi, in una continua revisione del suo pensiero politico che lo fa giungere ad una profetica visione universalistica. Nei secoli seguenti ci sarà un progressivo distacco della letteratura dalla realtà civile, politica e sociale del nostro paese e solo con la fine del Settecento ci sarà quel ritorno di coscienza civile nella letteratura che maturerà e fiorirà nell’esperienza ottocentesca del Risorgimento, in cui il vero lievito all’elaborazione del pensiero avverrà nell’ambito letterario con poesie che saranno veri e propri manifesti politici (dai Cori delle tragedie del Manzoni, all’Inno di Mameli, alla vena satirica appunto del Giusti) e con la centralità di un romanzo come I Promessi Sposi, costruito con tale abilità allusiva da diventare tramite di idee morali, civili e politiche per chiunque leggesse.
Esauritasi l’onda propulsiva del Risorgimento, la letteratura in Italia ripiega sul sentimentalismo e nemmeno il contatto con la realtà del Verga e del Capuana sa riportarla verso una coscienza civile politicamente produttiva. A prevalere è la linea retorica, sostenitrice della politica nelle forme manierate di D’Annunzio e del Pascoli meno autentico, che dimostrano tutta la loro fragilità letteraria nel momento in cui non sono capaci di proporre novità, ma vanno a traino di una linea politica altrove elaborata a cui forniscono acriticamente il loro sostegno. Situazione che continua negli anni del Fascismo con i letterati “ufficiali” votati al servilismo, come i Futuristi e altri, chiusi nelle torri d’avorio a elaborare elzeviri e prose d’arte, mentre la fucina politica matura nell’opposizione di autori come Vittorini e Pavese per esplodere poi nella Resistenza, di cui la letteratura più che motore si fa memoria per proseguire nell’onda lunga della letteratura impegnata (sul modello francese di Sartre) con il Neorealismo, in cui, però, il troppo marcato retroterra ideologico diventa il limite che la esaurisce in quanto letteratura di maniera di un regime, senza potere politico, ma di fatto dominante nel campo della cultura tanto da imporre determinati autori (in primis Brecht). La prevalenza degli intellettuali era fatta da reduci dallo stalinismo, tutti influenzati dalle “magnifiche sorti progressive” della Storia, sempre all’interno della dialettica dell’individuale/collettivo. Fece seguito la “scoperta” dell’alienazione, ma sempre in questo ambito che analizzava l’impatto dell’alienazione borghese, ben documentata dal cinema di Antonioni.
Poi, a partire dagli anni Settanta, la letteratura, ed in particolare la poesia, e la politica si separano per un ripiegamento prevalentemente intimistico della poesia che oltretutto si esprime in un linguaggio scarsamente comunicativo per l’eccessivo elaborazione formale tutta autoreferenziale sull’autore. Pochi, anche se di successo, i romanzi a carattere politico, da quelli di Leonardo Sciascia a Gomorra di Roberto Saviano, sommersi dal profluvio di testi e di film d’inchiesta e di denuncia, limite che ha caratterizzato anche l’esperienza della Neoavanguardia.  Il romanzo privilegia linee sfuggenti dalla realtà politica e sociale, ripiegando sul privato, ricostruendo il passato senza capacità di far emergere valori universali (come hanno saputo fare il Manzoni e pochi altri) o sfugge completamente dalla realtà con i generi fantasy.
Per questo tra i tanti aspetti negativi del nostro tempo va aggiunto anche questo, la mancanza di intelligenze creatrici che sappiano esprimere con il linguaggio, indubbiamente più ricco, efficace e convincente, della parola letteraria idee capaci di un apporto costruttivo e positivo per la nostra società.
Il fatto che non ci sia oggi, se non nelle letterature dei cosiddetti paesi ‘esotici’ dove la speranza costituisce un’epica, una produzione che si misuri con la politica è probabilmente dovuto alla crisi dell’umano. L’uomo sembra privo di speranza in un futuro e non solo per ragioni economiche, ma per il fatto che l’identità stessa dell’uomo è messa in gioco. Si  vive l’istante e non una storia. La dimostrazione più vistosa si ha nel cinema dove Il sesso si traduce in una ricerca spasmodica dell’anima, dell’alterità, della durata… che diventa in stordimento perché la carne è impermeabile, senza speranza: è come Mida. Non cercava forse Sade in Justine di ridurre la vittima in consenziente come quella della macchina di Kafka, nei Racconti? Kierkegaard dice che Nerone per sentirsi vivo doveva assistere all’omicidio di neonati: questo era un sensazione forte, perché non aveva l’equilibrio all’interno di sé. Manca la speranza, appunto…