martedì 26 aprile 2016

SINTESI DELL'INTERVENTO IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DI "CERCARE L'UOMO" - Genova 9 aprile 2016 --


Carlo Biancheri


Cercare l’uomo. Socrate, Platone, Aristotele è un libro importante perché è contro-corrente: ripercorre la filosofia  moderna e contemporanea, alla luce del pensiero di Aristotele. Francesco Calvo, allievo di Emilio Garroni, conosceva come pochi la filosofia  moderna, in particolare Kant, l’idealismo ma anche  la filosofia contemporanea, la fenomenologia e Heidegger, Russel e Popper, tra gli altri. Tutti hanno scritto su Aristotele, ma come per il tomismo che è comparabile ad un grande dormitorio pubblico dove la gente entra ed esce a  tutte le ore e si sa vicino a chi ci si addormenti (S. Tommaso) ma non si sa vicino a quale filosofo ci si svegli…, ciascuno lo legge a suo modo. Calvo lo conobbe, dapprima, tramite un heideggeriano, Pierre Aubenque (Le problème de l’Être chez Aristote), ma subito affrontò tutti i testi per anni, insieme al prof. padre De Vos, cui il libro è dedicato.
Anche in cultura vige il “politicamente corretto” e chi si adegua al pensiero dominante ha la sua retribuzione: viene riconosciuto come filosofo. Così, per dirla con Rémi Brague (La sagesse du monde), la filosofia  non è più la ricerca della verità ma è una epistemologia, anzi è divenuta  una sorta di terapia che regola le diverse opinioni disciplinandole democraticamente.
Già Molière si era scagliato contro il conformismo degli opportunisti con Tartufe e contro quel linguaggio comune della cultura del tempo che rasentava l’idiozia. Ne Les précieuses ridicules i piedi si chiamano les chers souffrants, (i cari sofferenti) e le signore in visita parlano seriamente tra loro della pena che le scarpe strette provocano ai “cari” in questione. In questo contesto  culturale di assiomi indiscussi in cui viviamo è “gran tempo”  quello di tornare al Maritain di Le paysan de la Garonne, il contadino della Garonne che sfacciatamente mette i piedi nel piatto in cui mangia, cioè parla senza reticenze e convenzioni.
Wittgenstein del Tractatus logico - philosophicus a un certo punto dice in modo icastico che «in filosofia o si è realisti o si è idealisti» (tertium non datur).
Per gli idealisti, la vera realtà è l’intelligibile e per Hegel la filosofia dovrà trasformarsi in scienza, mentre per Calvo la filosofia è l’amore della sapienza, lo stupore delle cose, come dice Aristotele, il che cos’è della cosa; a Popper, invece, non interessa il che cos’è delle cose per il rifiuto delle essenze, rimpiazzate dalla funzione.
Calvo ritiene indispensabile la ricerca di qualcosa di oggettivo che vada oltre la pura personalità individuale, mentre per Platone l’Essere è noetico, partendo dal reale. Essere è conoscere, diranno poi gli idealisti, rifacendosi a Platone.
Per Calvo, il pensiero è tutto un’interrogazione e, contrariamente a quel che diceva Kant, l’utilità della cosa non si giudica dal risultato. Per Kant la fondazione del reale è discorsiva: vero/falso,  mentre il noùmeno è il principio di causalità ‘per noi’,  in quanto la realtà del noùmeno è un enigma inconsultabile della “x” trascendentale. E così si instaura la schizofrenia della legge della necessità e di quella della libertà che sarebbe la coscienza: un postulato, un atto di fede… Come si forma? Si tratta di innatismo?
Il fine della scelta è l’azione, mentre quello della conoscenza è la verità, ma poi le cose sono dette “in atto”… e in questo ambito è possibile trovare una sorta di mediazione.
Ci si lamenta del soggettivismo corrente che ha generato uno scetticismo per cui tutto è funzionale e non interessa cercare il Vero ma ciò che prevale, l’opinione dei più: pochi scrivono che sono  almeno trecento anni che viviamo in un’abbuffata soggettiva in cultura.
Al Laterano, l’università del papa, c’è una famosa  professoressa che inizia il corso di filosofia dicendo: «Io sono certa di esistere perché penso… ». Evidentemente, come Cartesio, dovrà affrontare il problema del ponte… tra la realtà esterna ed il soggetto. Essere è noèin (conoscere) ed Essere ed esistere sono la stessa cosa nel pensiero idealistico (nel senso di Wittgenstein) . Anzi, l’uomo è il pastore dell’Essere e il Dà sein, “quel che ti succede qui” è l’Essere stesso. C’è sommessamente da chiedersi come si fondi un’etica, e prima ancora un’antropologia, una cosmologia su queste basi… Natura e cultura… La natura è un dato culturale, aveva detto Kant. I massoni tedeschi come Lessing e Herder facevano una battaglia contro la scolastica del tempo proprio per distruggere il concetto di natura. Ci sono riusciti? Edgar Morin ha scritto un famoso libro, Le paradygme perdu: la nature humaine, non a caso.
Brague descrive molto bene come per Fichte la natura costituisca la condizione per l’azione della libertà umana. Per Hegel, lo spirito pone la natura e  la  pone come suo mondo proprio perché è lo spirito che crea il reale.
Del resto la natura dei medievali, che ne vedevano un riflesso di Dio  mediante la creazione, è stata abbandonata da un pezzo; per Stuart Mill la natura non è più modello dell’attività morale perché è violenta; mentre per Sade la natura è criminale. Schopenhauer dirà che la morale cerca il punto dove le forze contrarie si annullano e fà l’esempio dei porcellini d’India che si combattono ad un tempo ma che hanno anche bisogno del calore e quindi stanno alla distanza più conveniente che impedisca la distruzione e che nel contempo fornisca il calore: mero utilitarismo; Adam Smith  è influenzato dalla teoria newtoniana per l’enunciazione della morale.
Già al tempo degli Epicurei, che avevano una visione negativa del reale, si diceva che quel che conta è la filìa, l’amicizia tra gli uomini che in termini moderni chiameremmo democrazia; è più importante  della Verità che è inaccessibile e, quindi, la filosofia diventa terapia ed accordo tra gli uomini, non ricerca della Verità. Non siamo lontani dal pensiero debole…
Per gli Gnostici, poi, noi siamo gettati in un mondo ostile dal demiurgo per cui alla natura non è riconosciuta alcuna bontà;  i neo-platonici, come Plotino, invocano una fuga degli uomini verso il Padre, essendo ora in una realtà decaduta, quella del corpo.
La scienza moderna abbandona la natura a favore della funzione razionale, il valore di cosa in sé della cosa non interessa. Cartesio, col razionalismo moderno, propone di abbandonare «ces formes ou qualités dont on dispute dans les écoles» (ma si riferiva agli eccessi razionalistici suareziani dei gesuiti…): lasciò in eredità alla Metafisica, che ne veniva inaugurata, problemi ancora maggiori di quelli che voleva risolvere. Kant, per mantenere aperta la via cartesiana, dichiara illusoria ogni sovrastruttura di  sostanza per l’anima, per il mondo, per dio, circoscrivendo l’ambito della fondazione egologica al sensus communis trascendentale delle categorie che oggi è stato  convertito nel senso comune del linguaggio. Ciò che è inattuale è superato… anzi  nel nostro tempo vige l’illusione positivista del continuo accrescimento del sapere… che sembra inesauribile; oppure l’illusione del progresso della Storia di matrice idealista… Eppure rimane la domanda: dopo Auschwitz (Annah Arendt) e dopo l’Isis, che cos’è l’uomo’?
Dopo Hume e la sua legge non si può più passare da ciò che è descrittivo a ciò che è prescrittivo. Come uscirne?
Qui  si situa l’importanza della ricerca di Calvo  da gran filosofo qual è. Egli cerca il fondamento, la sostanza, l’upokèimenon, cioè il sostrato, un riferimento che si fondi oltre la prospettiva della soggettività.
Compito arduo  nel contesto del cosiddetto pensiero critico moderno. Per Calvo la sostanza non è una cosa ma un principio formale che costituisce l’individuo.
La parola metafisica, oggi, è sinonimo di ectoplasma, ma pochi sanno che la sua origine dipende da Andronico da Rodi che ritrovando, dopo secoli(!), i libri di Aristotele si trova di fronte a libri che non sapeva come chiamare e che trattavano dei primi principi e venivano dopo quelli della Fisica e così li chiamò: Metà tà Fusiká, dopo i libri della Fisica… altro che fantasmi…
 Nel linguaggio comune l’astratto equivale ad  irreale : i politici, si fà per dire…, ripetono: parlo concretamente… eppure usano parole astratte,  come giovinezza, solidarietà, ecc…
L’astrazione, alla base della conoscenza in Aristotele, non è una mera conversio ad phantasmata perché in tal caso trasformeremmo Aristotele stesso in Locke (l’intelletto per immagini, ectipo di cui parla Kant) ma sono gli atti della conoscenza che rilevano nella loro base metafisica .
E allora forma e materia (che non è “quella delle fabbriche”, né quella signata quantitate che per i medievali individuava il singolare ma non dice nulla sulla forma, l’essenza di un essere sostanziale) e potenza ed atto (co-principi metafisici) qualificano la sostanza: la forma si può definire come la materia in atto così come la materia è la forma in potenza. Siamo fuori dall’ambito logico perché siamo in quello reale. Non esistono in sé la potenza e l’atto ma esistono nell’uomo ed in ogni sostanza. La forma è il limite formale  che incontra l’attuarsi.
La sostanza non è una cosa perché non si spiegherebbe che ciò che è più conoscibile per noi non è più conoscibile in sé.
Qualche riflessione sul bene. Per Platone è esterno all’uomo, infatti, in politica  il re filosofo  sa quale sia il bene per tutti e ciascuno deve esser contento di quel che gli tocca: è giustificazione della dittatura?
Aristotele centra tutto, invece, sulla convenienza metafisica per cui l’ìdion, il proprio, e il comune, sunòn, tendono a coincidere. In questo senso si fonda la democrazia perché si cerca sempre di far convergere il bene dell’individuo e quello comune.
Aristotele, dice Calvo, è contro l’idiosincrasia, dei moderni diremmo noi, che equivale a quel che dicevano i sofisti, criticati da Platone ma neppure concorda con un bene esterno all’uomo perché l’Essere non è univoco, ecco il punto, e questa non univocità è connessa con la potenza e l’atto. La scelta, ma di scelta metafisica deve trattarsi, cioè basata sulla propria natura profonda, nasce in modo dialettico. Aristotele critica la comunione delle donne e dei fanciulli che vigeva a Sparta perché dice che se qualcosa è di tutti nessuno se ne occupa e invece centra la sua antropologia sul fatto che l’uomo è, per sua natura, in relazione, è sociale: chi vive solo è un dio (autarchico) o una bestia. Si realizza con la famiglia che poi diventa villaggio e poi diventa città/Stato. E qui si determina il bene comune in una sorta di dialettica ma non delle opinioni, come si fà adesso dove la democrazia si conta… E se si decidesse da parte della maggioranza di ammazzare tutti i bambini? Dove sta il limite?
Si capisce allora l’importanza del tò tì en èinai, (ciò che aveva da essere)… per il fondamento che qualifica la sostanza.
L’Essere è àition tou èinai perché per Aristotele si tratta di nozione risolutiva ed analogica mentre per Platone la partecipazione all’idea è un fatto nozionalmente comune. Per Platone il non essere è una pura differenzialità logica, per Aristotele,  che parla di potenza di cui non si potrebbe dire nulla…, la differenzialità è immanente nella cosa.
L’essenza è la pròte ousìa, il principale della sostanza non è specie universale e l’atto è la tendenzialità del tò tì en èinai. Essere sé stesso come forma non generica ma individualità.

Ma noi viviamo in un contesto in cui tutto è trasformato in logica o è inconoscibile: lo scetticismo contemporaneo cui Calvo si oppone con argomenti forti, come scrive Ricoeur: un grande tessitore.