Rosa Elisa Giangoia
Come ci ha insegnato Leo Spitzer (Critica stilistica e
          semantica storica, Bari: Laterza, 1966) il linguaggio è rivelatore,
          anche in modo personalmente inconsapevole, di un modo di
          pensare, di una visione della realtà. Se applichiamo questo
          principio alla recente affermazione del vice-presidente del
          Consiglio Luigi Di Maio, riferita al suo collega Matteo
          Salvini, "Lui ha il diritto di parlare, io il dovere di fare i
          fatti, come Ministro dello Sviluppo Economico", possiamo
          trarre conclusioni interessanti. Precisiamo che Di Maio
          rispondeva a chi lo interrogava riguardo alla perplessità di
          Salvini sul memorandum siglato con la Cina per la mancanza di
          libero mercato nel paese asiatico.  Innanzitutto dobbiamo
          rilevare che l'espressione "fare i fatti", con quello che le
          buone grammatiche dei tempi andati definivano "complemento
          dell'oggetto interno", è impropria nella sua tautologia, il
          che comporta ristrettezza espressiva e incapacità di ordinare
          le idee in uno sviluppo logico-consequenziale. Non è, però,
          una questione semplicemente sintattica, ma di insensatezza
          logica. In senso assoluto (cioè senza un complemento oggetto)
          si potrebbe usare il verbo "operare", ma in questo caso il
          discorso aveva bisogno di uno sviluppo: quali "fatti"? L'agire
          in sé non è di per sé positivo, dipende sempre da cosa si
          fà... 
Dato che è facile che
          si operi una traslazione dalla confusione linguistica a quella
          delle idee di governo, la situazione si fà seria!
 
