sabato 11 febbraio 2012

LE PAROLE SONO PIETRE

 Rosa Elisa Giangoia

Le parole sono pietre, così Carlo Levi intitolava un suo libro di denuncia della situazione siciliana alcuni decenni fa, ma quest’espressione può essere colta in tutta la sua polisemia per dire che le parole devono avere un loro peso, una loro gravità, cioè una loro forza ed efficacia, quindi devono avere una corrispondenza biunivoca con la realtà, cioè con dei concetti e con delle cose. Oggi invece si fa un uso molto diverso delle parole, soprattutto da parte dei politici, degli opinionisti e di tanti altri che in situazioni professionali anche molto diverse fanno un uso strumentale delle parole. Sempre più le parole vengono usate con leggerezza, sfruttandone tutte le valenze semantiche, per cui vengono gettate verso gli ascoltatori, si scruta il loro effetto, subito pronti a cogliere la possibilità di modificarne il valore ed il senso, per dirottare altrove il discorso. Tutto questo vuol dire che dietro alle parole non c’è un pensiero, un’opinione sicura da perseguire, un’idea da realizzare, ma c’è solo l’attenzione all’effetto, il miraggio di raggiungere dei risultati a proprio vantaggio, attraverso il tentativo di provare ed eventualmente modificare o addirittura smentire in caso che si veda che il discorso non va verso dove si vorrebbe, adducendo sovente la scusa di essere stati fraintesi. Potremmo riprendere i versi di Emily Dickinson : "Alcuni dicono che / quando è detta / la parola muore. /Io dico invece che/ proprio quel giorno / comincia a vivere" (Silenzi: 1212). Ormai è sempre più diffuso questo orientamento verso una parola che appena detta «muore», perché, appena detta, si sa che la si può cambiare. Invece, se la parola è una “pietra”, se ha un suo intrinseco valore, appena pronunciata acquista tutto il suo peso, tutta la sua efficacia e vive nell’operatività. Come una pietra, infatti, una parola può colpire e lasciare il segno, sia in senso positivo che negativo, se dietro ad essa c’è un pensiero, un’idea. Ma dietro la parola ci deve essere una certezza: oggi le parole sono sempre più finalizzate a se stesse, sempre più svolgono unicamente una funzione fàtica, cioè non mezzo di espressione di un concetto,  non poggiano su  sicurezze, per cui servono a chi parla piuttosto che a chi ascolta. Infatti, come dice il Manzoni «Le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi», per questo, appena vengono pronunciate, si guarda all’effetto che fanno negli orecchi dell’interlocutore ed eventualmente si aggiusta il tiro… E così le parole diventano un eccesso, un fiume in libertà, perché chi molto parla, pensa poco, mentre l’importante è avere delle idee, degli obiettivi da raggiungere ed impegnarsi a perseguirli, perché, come dice Wittgenstein «Le parole sono azioni» e così devono essere. E’ attraverso la parola che noi delineiamo il nostro spazio interiore, il quale a sua volta costruisce la realtà esterna, in base alle nostre idee, purché queste ci siano nella mente … e purché si abbiano degli obiettivi da raggiungere.
Quest’uso capzioso e distorto della parola è anche quel che ci resta da oltre diciassette anni di degrado leghista, berlusconide e fascista che si è adagiato e ha incarnato la civiltà immagine/istante, senza futuro, senza fatica e senza criticità, come metodo: è un abissale narcisismo. Il punto di riferimento, il parametro di ogni cosa è il proprio piccolo io, che diventa smisurato e ridicolo: il conducator non accetta di esser piccolo di statura e allora porta i tacchi oppure vuol vivere fino a centovent'anni circondato da amici, servi, lenoni e teen agers.
Tutto è competizione per dimostrare che ciascuno  è il più bravo, il più furbo, salvo drogarsi per sfuggire al reale: troppa realtà l'uomo non la sopporta, diceva Aristotele. Ecco, le parole sono clave per imporsi - coi bei risultati a tutti evidenti...- non per esprimere il Vero.