venerdì 12 luglio 2013

L'ORGOGLIO DELLA PELLE NERA

La lettura di Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera (Jaca Book, Milano 2013, pp. 121, € 10,00) di Cheikh Tidiane Gaye, poeta e narratore di origine senegalese con cittadinanza italiana, che ha scelto la nostra lingua come strumento espressivo per affrancarsi dal francese, sentito come lingua del dominio coloniale sul suo paese d’origine, scuote senz’altro a fondo le nostre coscienze, riguardo alla situazione degli immigrati in Italia e più in generale in Europa, anticipando le raccomandazioni morali espresse da papa Francesco in occasione della sua recente visita a Lampedusa. Lo scrittore, infatti, attraverso una serie di lettere all’amico fraterno Silmakha, anch’egli emigrato lontano dal Senegal, analizza con accorata acutezza la condizione di chi, come lui e tanti altri, dal suo e da altri paesi dell’Africa nera, si sono trasferiti in Italia, sperando in un futuro migliore, ma hanno dovuto affrontare le durezze della vita in un ambiente poco accogliente ed anche con componenti politiche di aperta ostilità, in cui crearsi una buona condizione di quotidiana esistenza è molto difficile, tanto che parecchi non ci riescono e precipitano nelle oscure sacche della clandestinità. Così Gaye sfaccetta la sua narrazione in tante storie, ognuna con un uomo o una donna protagonista di una vicenda difficile, resa ancora più dura dall’indifferenza, dalla mancata accoglienza e soprattutto da una pesante cappa di prevenzioni e pregiudizi nei confronti di chi viene dall’Africa ed è nero di pelle, ma anche di altri, soprattutto dei rom, degli zingari, degli albanesi… Sono storie che l’autore fa vivere davanti ai nostri occhi con le sue capacità narrative, venate di un afflato poetico, che gli derivano dalle sue radici nella lingua e nella cultura wolof, in cui il griot, il poeta, il cantastorie è il custode della tradizione orale. Ma la situazione sua, che è quella di chi, seppure con fatica, è riuscito ad inserirsi pienamente nella vita italiana con un buon lavoro, una bella famiglia ed un certo successo letterario, a cui si aggiunge anche l’impegno politico, e quelle degli altri emigrati lo portano a porsi delle domande che scuotono soprattutto le nostre coscienze. L’interrogativo di fondo verte sul concetto stesso di “civiltà”, quella che solo i popoli europei o da essi derivati ritengono di possedere e in passato hanno cercato di imporre con azioni di brutale violenza, come la tratta degli schiavi dall’Africa per incrementare il benessere del nord America. A questo proposito l’autore rievoca la sua visita a Gorée, alla Casa degli Schiavi, posto che gli “è rimasto nell’anima”, luogo simbolo di quella deportazione di migliaia di “africani portati in America, schiavizzati e poi trasformati in animali per fertilizzare le terre”. Le accuse che Gaye rivolge alla storia dell’Occidente sono forti: «Non si può uccidere in Vietnam, in Africa, malmenare innocenti, rubare loro le materie prime, prosciugare i loro pozzi di greggio, inquinare l’ambiente, sfruttare il lavoro minorile, stuprare le donne, incendiare villaggi, complottare per capovolgere regimi eletti democraticamente, abbattere gli altrui luoghi di culto, seppellire credenze, umiliare dignitari, vendere armi, incitare alla guerra, sacrificare il destino di molti giovani, discriminare, infangare, e poi osare definirsi CIVILI!». Tutto questo, purtroppo, non riguarda solo il passato, la storia, ma molto continua anche nel presente, nelle nostre città, nella Milano in cui l’autore vive, dove la pelle nera è guardata con sospetto, dove chi arriva dall’Africa non viene accolto e neppure accettato, ma continua ad essere oggetto di discriminazione, in quanto non gli viene riconosciuto il ruolo che la sua preparazione culturale e professionale comporterebbe, ma viene relegato a svolgere i lavori più pesanti, talvolta anche pericolosi, confinandolo sempre in fondo alla scala sociale, sovente mettendo in difficoltà o addirittura calpestando la sua dignità di persona umana, come si è visto per gli stagionali di Sarno. Ma quello che più interessa all’autore, come significativamente indica anche il titolo del libro, è mantenere la sua pelle nera, i suoi legami culturali con la sua terra, non spogliarsi della sua identità, fatta di tradizioni antiche della cui validità egli è fermamente convinto. A suo giudizio, infatti, e questo è il messaggio politico, di carattere profetico, che lancia con questo libro, solo una società in cui persone con tradizioni culturali diverse possano vivere, senza sopraffazioni, senza rancori, né odi, ma secondo regole di piena giustizia, basate sull’amore, potrà garantire a tutti una vita serena e felice. Questa è l’eredità che lascia nella lettera conclusiva che scrive a suo figlio mulatto, per aiutarlo «a diventare uomo», cioè a «saper convivere, accettare, accogliere e amare la vita». Lascia a lui e ai lettori un’ultima raccomandazione: «la fiamma dell’uguaglianza deve illuminare ogni stanza buia e sofferta; a te il mio sostegno, a te il compito di svegliare l’alba dei nuovi tempi, ma non odiare perché tu sei “perdono”».

3 commenti:

  1. Bello il libro di Gaye: forte e poetico!

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  2. L’episodio degli insulti razzisti alla Ministra Keynge è stato un’ulteriore dimostrazione e conferma del bassissimo livello mentale, intellettuale e culturale della Lega, cosa che voi avete spesso denunciato. Però avere un ministro di colore per l’Integrazione non significa nulla, rischia di essere solo un manifestazione di inutile buonismo, l’importante sarebbe fare delle azioni concrete di integrazione, cosa di cui per ora non si è visto nulla, come non si è visto nulla da parte del precedente ministro Riccardi, che da tutta la vita gioca a fare il santo, ma per ora sembra aver concluso ben poco!

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    1. Certo, è bene non fare i cattolici di professione.. .come fanno tanti... per tornaconto?

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