lunedì 29 agosto 2011

LA GRANDE MALATA

Rosa Elisa Giangoia

La grande malata in Italia è la scuola, ma, per capire la grave situazione in cui si trova, bisogna andare indietro di circa quarant’anni, quando è stata investita dall’ondata di richiesta d’istruzione superiore da parte di una sempre più ampia parte della popolazione giovanile. In questo momento era necessario un enorme sforzo di  innovazione culturale, pedagogica e didattica, nonché una grande progettualità organizzativa. Il passare da una scuola classista, selettiva e d'élite ad una scuola di massa, capace di fornire a tutti una cultura generale e nello stesso tempo competenze professionali, con possibilità per tutti di accedere agli studi universitari di qualunque tipo, era senz'altro un progetto complesso e molto ambizioso, soprattutto  senza modelli, né precedenti storici, per cui richiedeva un ripensamento generale dell'istruzione a tutti i livelli. Questo purtroppo non è avvenuto.  Sono state attuate solo e sempre piccole modifiche e innovazioni parziali, sovente di carattere demagogico, in particolare la liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie con provenienza da qualunque tipo di scuola superiore, che ha provocato difficoltà negli studi e frequenti abbandoni, situazioni che l’introduzione dei successivi test d’ingresso ad alcune facoltà non ha certo risolto, anche per il modo in cui sono organizzati.  Accanto ai modesti cambiamenti, è stata messa in atto tutta una serie di sperimentazioni, mai verificate, mandate avanti per inerzia, nel disinteresse dei vari ministri che si succedevano al dicastero, senza un progetto pedagogico, educativo e didattico globale. E' stato messo profondamente in discussione il nozionismo, senza riuscire a costruire modalità e percorsi diversi in grado di formare davvero autonomia di giudizio e capacità critiche, al di là del possesso saldo di conoscenze e dell’ acquisizione dei testi della tradizione culturale. A questa complessa riorganizzazione dell’offerta formativa doveva provvedere lo Stato, che ormai, dopo l’unità d’Italia, si era fatto carico dell’istruzione del paese, rendendo marginale l’apporto di altre agenzie educative che storicamente avevano avuto un grande peso, come era stato per alcuni ordini religiosi, Gesuiti in primis. Ma con il conferimento del valore legale ai titoli di studio, lo Stato aveva progressivamente avocato a sé l’organizzazione dell’istruzione del paese, in quanto anche gli altri avevano dovuto uniformarsi al modello proposto dallo Stato. Ma quando l’organizzazione gentiliana della scuola italiana è stata investita dalla richiesta di scolarizzazione di massa, lo Stato non è stato in grado di far fronte alla situazione in modo adeguato ed ora, appunto a quarant’anni di distanza, si possono fare un esame ed un bilancio della situazione. Cosa è successo? Innanzitutto con la scuola media unica, diventata scuola dell’obbligo, già si era abbassato il livello di conoscenze, competenze ed abilità rispetto a chi precedentemente aveva frequentato la vecchia scuola media, e nel contempo erano state del tutto eliminate le competenze professionalizzanti che le precedenti scuole commerciali e di avviamento professionale fornivano ad una parte consistente dei  ragazzi con la possibilità di un rapido inserimento nel mondo del lavoro. Ma anche quando la massa giovanile ha iniziato ad iscriversi sempre più numerosa alle scuole medie superiori, salvo pochissime modifiche strettamente necessarie, come quelle inerenti l’insegnamento del Latino in IV ginnasio, si è conservato per parecchi anni il sostanziale impianto gentiliano.  In questo ampio e generalizzato accesso all’istruzione le preferenze sono andate polarizzandosi verso il liceo scientifico, che è diventato di fatto una sorta di liceo “moderno”, gradito per la maggior attenzione riservata alle materie scientifiche, tra le quali è andata sempre più affermandosi la Biologia, e alle lingue straniere. Il liceo classico è cresciuto di poco, mentre in una prima fase hanno avuto un forte aumento gli istituti tecnici commerciali e industriali e quelli professionali, per subire progressivamente una flessione con una sempre più ampia frequentazione da parte dei figli degli immigrati, in concomitanza con l’aumentare del fenomeno migratorio verso il nostro paese. In questo modo gli istituti tecnici e professionali, invece di continuare ad essere canali di buona formazione tecnica con la trasmissione di una cultura generale e di competenze ben spendibili sul mercato del lavoro, anche per i collegamenti che vi erano con l’industria, hanno finito per diventare di fatto scuole superiori di serie B, in cui devono essere fronteggiati soprattutto problemi di carattere sociale, con la conseguenza che l'apprendimento è limitato, per cui l’inserimento nel mondo del lavoro sempre più problematico. Tutto questo anche perché non è stato fatto nessun progetto pedagogico e didattico per gli immigrati a livello nazionale, lasciando di volta in volta la soluzione dei problemi alle singole scuole con risorse economiche sempre più limitate. Se aperture culturali e innovazioni metodologiche e didattiche sono entrate nella scuola il merito va tutto all’editoria scolastica, che, soprattutto negli anni Settanta, si è fortemente impegnata in operazioni di introduzione delle novità culturali, in tutti i campi, nella didattica, anche se non sempre supportata dalla fiducia degli insegnanti, ragion per cui successivamente anche in quest’abito c’è stato un forte ripiegamento verso la tradizione e la semplificazione.
L’elemento rilevante è che, anche nei licei, si è venuta progressivamente instaurando di fatto una facilitazione degli studi, di tipo demagogico, con una tacita riduzione dei programmi ed uno scadimento della qualità dell’apprendimento, in quanto l'ampliamento generalizzato dell'utenza scolastica non consentiva più di operare selezioni in base a criteri che potevano essere attuati e accettati solo in una scuola elitaria. Nonostante questo, le difficoltà da parte dell’utenza giovanile sono venute sempre più aumentando, con esiti scolastici ampiamente deludenti. A questo punto è stata messa in atto la quanto mai deleteria teoria del “debiti”, in base alla quale, anche con l’insufficienza in più materie (importanti e d’indirizzo) si andava avanti comunque, fino ad arrivare all’esame di maturità, che nella maggior parte dei casi, avendo avuto per parecchi anni una normativa fortemente demagogica, come quella di essere interrogati su due sole materie (per lo più scelte dallo stesso candidato), veniva superato. Ad un cero punto, di fronte al sempre più ampio dilagare dell’impreparazione, nel tentativo di ovviare a questa situazione, si è teoricamente introdotto il principio del recupero e del sostegno all'interno della scuola stessa,  secondo cui la scuola deve al suo interno farsi carico di sostenere e di recuperare gli studenti che dimostrino difficoltà e carenze nell’acquisizione delle conoscenze e delle competenze. Principio di per sé corretto e importante, ma che richiedeva ben altri mezzi finanziari di quelli messi in campo e ben altro rigore nell'attuazione.  Fino ad arrivare alla situazione attuale in cui, davanti a indicatori di ritardo, dispersione, dissipazione allarmanti,  nessuno muove un dito (se non per tagliare le risorse destinate alla scuola) al fine di rispondere significativamente dal punto di vista della scuola a queste necessità. L’attuale Ministro Gelmini, che non continua a far altro che danni nella scuola, non ha assolutamente preso in considerazione la questione.
A dequalificare la scuola ha contribuito e continua sempre più a contribuire il peggioramento delle condizioni degli insegnanti. Ad un’ondata di entusiasmo, con progetti e innovazioni, messa in atto da una generazione di insegnanti giovani negli anni Settanta, sull’onda lunga delle posizioni di don Milani, che hanno cercato di scalzare le “vestali della scuola”, madri di famiglia carducciane, imprestate a tempo molto parziale alla scuola, è succeduta una ormai lunga generazione di insegnanti sempre meno preparati culturalmente e meno motivati.  Altro che le figure di grandi maestri, come Augusto Monti, ai tempi di Pavese! Occorre rilevare che gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati in Europa e nello stesso tempo, anche per questo, hanno perso considerazione sociale e diminuito le motivazioni professionali, soprattutto in una situazione come quella degli ultimi cinque-sei anni in cui le condizioni di lavoro (orari, numero degli studenti, carichi di lavoro, ecc.) sono notevolmente peggiorate senza una significativa contropartita salariale. A questo si aggiunge l’endemica condizione di precariato, ulteriormente aggravata dalla mancanza di criteri validi per l’assunzione in ruolo. Aboliti i concorsi a cattedre, che almeno operavano una selezione di tipo culturale, archiviata, senza motivazioni e verifiche, l’esperienza delle SSIS, ci troviamo attualmente in un vuoto normativo che vede l’immissione in ruolo unicamente sulla base di graduatorie in cui determinante è l’anzianità di servizio, a cui si aggiungono titoli acquisiti a pagamento soprattutto presso istituzioni culturali molto discutibili e la cui serietà è sovente stata messa in discussione.
Dobbiamo inoltre sottolineare quella che potremmo chiamare la solitudine della scuola. Infatti, mentre in passato esistevano altre agenzie educative di rilievo, indubbiamente di grande importanza la Chiesa con il suo tessuto delle parrocchie e il capillare associazionismo giovanile, e meno diffuse le scuole di partito (pionieri, ecc.), capaci di fornire orientamenti e chiavi di lettura della realtà, da vent'anni a questa parte la scuola si trova a dover fronteggiare, senza nessun aiuto, neppure quello delle famiglie, l'assalto diseducativo delle TV, a cui molto spesso gli stessi genitori delegano funzioni di intrattenimento-educazione dei bambini e dei ragazzi. Le conseguenze sono, da parte dei giovani, il disinteresse per la "cosa pubblica", l'individualismo, la falsa scala dei valori, fortemente legata al consumismo, il seguire modelli sbagliati, imposti dal divismo televisivo, ecc.
Per tutte queste ragioni ci ritroviamo con l'attuale ampia fascia dei diciotto-ventenni sempre meno istruiti a livello di conoscenze e competenze, meno criticamente scaltriti e, se avviati agli studi universitari, destinati ad una preparazione tecnico-scientifica sempre più settorialmente ristretta, il che diminuisce ulteriormente la capacità di valutazione della realtà nel suo insieme.
Da questo stato di cose deriva il quietismo, l’acquiescenza che i giovani d’oggi dimostrano nei confronti della grave situazione in cui si trovano a vivere, con la più elevata percentuale di disoccupazione giovanile in Europa, con un alto tasso di lavoro precario, con difficoltà a crearsi un’autonomia personale e famigliare, con prospettive a lungo termine piuttosto inquietanti per quanto riguarda aspetti importanti del loro futuro (occupazione stabile, pensioni, ecc.).  I problemi veri della loro generazione sembrano, però, lontani dal loro orizzonte, dalla loro presa di coscienza, a consolarli pare basti un cellulare ultimo tipo (magari regalato dai genitori, dagli zii o dai nonni, che con le loro pensioni sovente riescono a tamponare situazioni difficili) o un televisore ad alta definizione per vedere meglio la partita della squadra del cuore! Questo è quello che voleva e che è riuscita ad ottenere la casta al potere, anche perché la sinistra non ha saputo dare prima un indirizzo corretto alla scuola e poi non ha fatto nulla per contrastare ed impedire l’orientamento prevalente. Il fatto che nessuno tenga seriamente in considerazione che la scuola è il futuro della società fa emergere chiaramente l’atavico cinismo italico, già denunciato da Machiavelli e Guicciardini, a causa del quale non ci si preoccupa affatto del bene comune, ma si guarda solo al tornaconto individuale immediato.




11 commenti:

  1. Molto interessante l'analisi sulla realtà della scuola negli ultimi decenni, ma vorrei aggiungere un'osservazione. A mio giudizio, oltre la TV, è anche la musica rock, così amata e diffusa tra i giovani, che crea passività, per il fatto che la si ascolta in queste riunioni più o meno oceaniche, in cui ci si sente parte di un insieme, senza progettualità soggettiva, trascinati dalla musica ed inglobati nella folla. Dato poi che alcuni filoni di produzione musicale, ad iniziare dagli U2 con Bono, hanno una caratterizzazione politico-sociale, ci si fa facilmente l'idea che ascoltare quella musica, partecipare ai concerti di quei complessi, sia già di per sè prendere una posizione, al di là del fatto che le scelte e gli impegni devono essere in primo luogo individuali ed assunti con serietà e determinazione. Invece si va facendo sempre più strada l'idea che si sia di una o di un'altra idea politica a seconda della musica che si ascolta.

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  2. Condivido tutto quello che ha scritto la Giangoia, ma vorrei aggiungere che ormai nei confronti dell'istruzione, dello studio e della cultura manca il consenso sociale, soprattutto da parte dei genitori, i quali sono sempre più preoccupati soltanto del fatto che i figli siano felici, cioé si divertano, facciano quello che loro piace, se la passino bene con amici e amiche, piuttosto che si facciano una solida formazione, a costo di impegno e sacrifici. E' una cosa molto grave e seria, perché questi ragazzi dalla preparazione superficiale poi hanno delle grosse difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro, a meno che la famiglia non abbia già qualcosa di sicuro da offrire loro, per cui poi nella vita si troveranno male, ancor più proprio per le insicurezze che deriveranno dal non avere una solida formazione umana e culturale e dall'abitudine alla vita facile.

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  3. In base alla mia esperienza vorrei aggiungere qualcosa sui giovani, la scuola e l’impegno politico. Oggi i ragazzi che escono anche dai nostri migliori licei hanno scarse capacità di argomentare, di tenere un discorso ampio ed articolato su un argomento impegnativo, di esporre delle proprie idee, di parlare in pubblico… Questo, insieme alla concentrazione degli interessi sul privato o al massimo, tanto per far riferimento ad una sfera pubblica, sullo sport, oltre che, come già indicato, sulla musica, li porta ad un disinteresse generalizzato per quanto riguarda la vita sociale e politica. Indubbiamente le radici di tutto questo stanno nella scuola, nella qualità dell’insegnamento e nella pratica quotidiana in classe. Pensiamo al Fascismo che con la Riforma Gentile, avendo dato ad alcune generazioni di giovani un alto profilo culturale, si è di fatto allevato una serpe in seno, perché proprio i giovani più dotati e preparati sono diventati gli oppositori del Fascismo. Dopo la guerra, per una ventina d’anni la situazione è rimasta piuttosto in equilibrio, per quanto riguarda l’impegno giovanile, tra mondo cattolico e militanza comunista, secondo lo spirito della guerra fredda, anche se l’elaborazione culturale stava prevalentemente a sinistra: di fatto il PCI, anche con il supporto di alcune case editrici (Einaudi) ha ricoperto un ruolo di egemonia culturale per quasi trent’anni, mentre la DC era più impegnata in ambito socio-economico, soprattutto nelle industrie a partecipazione statale. Tutto questo fino a quando si è arrivati al 68, a cui ancora una volta hanno dato vita giovani appena usciti dai licei e dotati di una preparazione culturale di buon livello che li rendeva capaci di argomentare e di parlare in pubblico, con possibilità di farsi ascoltare e di convincere. Poi la situazione è degenerata con la sinistra extraparlamentare, le BR, ecc., per cui si è venuto diffondendo un certo timore della politica da parte dei giovani e soprattutto delle famiglie, che vedevano l’impegnarsi o anche solo l’occuparsi di politica come qualcosa di rischioso, che poteva comportare dei pericoli. Questo ha portato ad un progressivo disinteresse, determinato da cautela. Erano gli anni in cui le famiglie preferivano le scuole private, perché non c’erano le assemblee, per evitare che i ragazzi partecipassero agli scioperi e ai cortei. Circolavano frasi del tipo: “E’ un bravo ragazzo, non fa politica…”. E’ anche questo il motivo per cui i programmi televisivi di evasione delle reti di Berlusconi hanno trovato facilmente un pubblico disponibile e tale da lasciarsi facilmente trascinare al qualunquismo e al disimpegno.

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  4. A proposito di chiesa e scuola veramente bisognerebbe anche osservare un'altra cosa, cioé che da parecchi decenni, ovvero dal Concordato, la Chiesa Cattolica ha il grosso privilegio dell'insegnamento della religione nelle scuole, privilegio che purtroppo ha utilizzato molto male, prima di tutto perché qualche anno fa tutti gli insegnanti di religione cattolica sono stati immessi in ruolo con la possibilità, se avevano una laurea disciplinare (Lettere, Filosofia, Matematica, ecc.) di passare poi su quella cattedra, usufruendo dei punti accumulati insegnando religione, il che è stato sentito da parte di tanti precari della scuola come un vero e proprio sopruso. Bisogna poi dire che gli insegnanti di religione, prima, quando erano quasi esclusivamente sacerdoti, insegnavano davvero la religione cattolica, perché spiegavano i testi sacri, facevano conoscere le verità della fede, facevano pregare, ecc. ecc., poi invece da un po' di anni, forse anche perché ci sono tanti laici, hanno preso tutta un'altra strada, forse anche da quando ci si può avvalere o meno dell'insegnamento, nel tenativo di avere sempre un bel po' di iscritti. Infatti attualmente gli insegnanti di religione cattolica, in genere tutti, per cui credo abbiano l'approvazione degli uffici catechistici e quindi che ci sia un piano generale della CEI, impostano l'insegnamento sull'amicizia, sulle discussioni di attualità, sul vedere dei film per poi discutere, per cui è molto difficile che attraverso le ore di Religione Cattolica passino le verità del cristianesimo, anzi, quando si discute, si va sul qualunquismo dell' "a me pare", "ho sentito dire che" e non si costruisce nulla di serio. C'è poi tutto il grosso problema di quegli studenti che non si avvalgono dell'insegnamento della Religione Cattolica che entrano a scuola dopo o escono prima o se la lezione è nelle ore intermedie, escono e vanno a ciondolare in giro tra bar e giardinetti ed è veramente uno scandalo che lo Stato non sia riuscito a proporre ed organizzare qualcosa di serio e costruttivo per loro: questa è un'altra grave pecca della scuola di Stato che va denunciata. Comunque la questione di fondo rimane che la Chiesa, pur avendo la possibilità di entrare in contatto cn tutti gli scolari e gli studenti, riesce a fare ben poco per l'evangelizzazione per incapacità culturale e pedagogica.

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  5. Purtroppo a far passare le ore di lezione in classe facendo vedere film (come se i ragazzi non stessero già abbastanza a casa davanti alla TV e al pc) non sono solo gli insegnanti di religione, ma anche molti altri che trovano molto comodo questo sistema. Prima di tutto quelli di inglese e di altre lingue straniere che con la scusa che i ragazzi non si devono abituare alla loro pronuncia, fanno vedere dei film e altre cose del genere. In questo caso potrebbe anche essere una cosa utile, ma bisognerebbe che poi si facesse tutto un lavoro di rielaborazione didattica su quanto visto, tipo passare dal discorso diretto a quello indiretto, cambiare i tempi dei verbi, ecc., cosa che di solito non avviene. Poi ci sono gli insegnanti di Storia e Filosofia che invece di fare una bella lezione argomentata e abituare i ragazzi a ragionare e ad esporre le loro idee in modo convincente gli fanno vedere il film su Giordano Bruno o su Galileo o altre cose del genere, come quelli di scienze che invece di organizzare degli esperimenti in laboratorio (quando c'è, perché veramente le nostre scuole fanno pena!) per spiegargli l'evoluzione gli fanno vedere il film sulle Galapagos. Poi ci sono quelli di Italiano che dato che non hanno voglia di spiegare Dante, nella migliore delle ipotesi gli fanno vedere Benigni, se no lo saltano... Gli unici che si salvano sono quelli di Latino e Greco e di Matematica e Fisica, dato che vengono già loro da una preparazione più seria e rigorosa. Dico queste cose perché ho cinque figli che hanno fatto le superiori e ne ho viste di tutti i colori.

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  6. La signora Lanza, anche se ha cinque figli che hanno frequentato le superiori, non può permettersi di dare giudizi così generalizzati ed infangare tutto il lavoro di una categoria professionale che si impegna in un lavoro scarsamente supportato dallo Stato e lasciato quasi completamente all’iniziativa (e direi anche all’inventiva) personale, nonché alla buona volontà degli insegnanti. Chi insegna lingue straniere dovrebbe servirsi quasi esclusivamente del laboratorio di lingue, che purtroppo nella maggior parte delle scuole italiane, a differenza di quanto avviene in tutti gli altri paesi europei, dove appunto le lingue straniere si imparano bene, non è disponibile, per cui, con fantasia e limitandosi ai mezzi a disposizione, sovente con un semplice registratore, neanche video, fa quello che può. Se gli insegnanti di altre materie per singoli argomenti si avvalgono di buoni filmati, sovente firmati da valenti registri, o di altri mezzi per rompere la monotonia della lezione frontale ex cathedra e stimolare in questo modo l’interesse e l’attenzione degli studenti, fanno molto bene, anche perché in genere i risultati che si ottengono sono molto soddisfacenti ed incoraggianti. Certo che partire da situazioni particolari, non sufficientemente documentate e vagliate, per generalizzare è veramente un modo di procedere squallido, soprattutto per sostenere un tipo di scuola arretrata, non più al passo con i tempi.

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  7. Il commento di Anna Lanza, emblema delle madri portatrici di un’esasperata autostima e sull’orlo di una crisi di nervi per inadeguatezza dei risultati personali e familiari ottenuti, è di un qualunquismo così becero che non dovevate proprio pubblicarlo.

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  8. La presa di posizione della signora Lanza, che denuncia situazioni di cui è difficile quantificare l’estensione, ma indubbiamente presenti nella scuola, comporta attenzione per una questione molto più radicale. Nella società attuale la comunicazione delle idee, dei pensieri, dei fatti, delle emozioni e dei sentimenti avviene sempre di più attraverso mezzi diversi da quelli della parola, cioè tramite suoni, musica, immagini, colori, movimento, ecc. In questa realtà in cui la parola, soprattutto nelle sue potenzialità di dar luogo all’organizzazione di discorsi logico-consequenziali, diventa strumento minoritario accanto ad altri, dobbiamo porci seriamente il problema se questo sia un progresso per l’ampliarsi delle potenzialità espressive e comunicative o un regresso per l’imporsi di strumenti espressivi di più immediato e facile impatto, capaci di agire più sulla sfera emotiva che su quella razionale. In questo interrogarsi rientra anche il problema della didattica, che tradizionalmente ha privilegiato il comunicare tramite la parola, il lògos della tradizione classica, e in cui sempre più invasivamente si inseriscono tutte le altre forme di espressione e comunicazione. A mio giudizio, la vera questione sta nel non usare scorciatoie o semplificazioni da parte degli insegnanti, che devono invece sfruttare pienamente la vasta gamma della pluralità espressiva di cui oggi disponiamo, ma soprattutto devono recuperare la funzione espressiva e comunicativa della parola, riequilibrandone la specificità rispetto agli altri mezzi. Per capire meglio, facciamo un solo esempio, tornando su Galileo. Se, accanto ad una buona presentazione del pensiero di Galileo e alla sua comprensione e assimilazione (che vuol dire capacità di ri-esporlo), sostenuta dalla lettura di alcuni testi significativi suoi e dei suoi oppositori, allo studente viene proposto anche il film di Liliana Cavani, le possibilità di conoscenza si ampliano secondo due aree importanti, quella della ricostruzione della realtà storica, sociale e culturale in cui Galileo si è trovato a vivere e quella della sfera psicologica, spirituale e sentimentale delle emozioni e dei dilemmi che il personaggio ha vissuto. Indubbiamente un arricchimento che solo le immagini, i suoni (in questo caso le musiche struggenti di Ennio Moriconi), la buona interpretazione degli attori possono dare. E così per tutti gli altri casi che si potrebbero citare. Certo che i rischi sono molti: proprio nell’attuale situazione di crisi della scuola, con insegnanti spesso non adeguatamente preparati, con classi super affollate, con insufficiente disponibilità di mezzi e strumenti didattici, è facile cadere nel semplicismo di privilegiare la didattica per immagini e suoni, che da sola non fa altro che conformarsi al bombardamento di comunicazioni fonovisive a cui i bambini e i ragazzi sono sottoposti continuamente, con il progressivo scivolamento nella passività acritica. La regola è quella antica della misura, del modus in rebus, secondo cui la scuola non può isolarsi nella sfera della parola, ma deve piuttosto saper insegnare ad usare la parola, in quanto unico possibile strumento di ragionamento e di argomentazione, anche per valutare le altre forme di espressione e comunicazione.

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  9. Bella la risposta della prof. Giangoia, completa, totale, esauriente ed esaustiva: non c'è più niente da dire e la questione è chiusa. Complimenti!

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  10. Per la scuola Monti non sarà un gran bene, anzi forse sarà anche un male, uno che plaude alla riforma dell’Università della Gelmini. Infatti così scrisse sul “Corriere” del 2 gennaio 2011:

    «L’abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili... L’illusionismo berlusconiano non fa sentire al Paese la necessità delle riforme, che comunque l’illusionismo marxiano e il cinismo delle corporazioni provvedono a rendere più difficili. Eppure, la riforma dell’università la riforma della contrattazione indicano la strada, mostrano che è possibile percorrerla. Se si procederà così le gravi tare dell'Italia elencate da Ernesto Galli della Loggia (Corriere, 30 dicembre) potranno essere rimosse in cinque o dieci anni, senza cedere al disperato qualunquismo».

    E poi lo sapete l’ultimo colpo di coda della Gelmini? Prima di andarsene ha firmato un decreto con cui ha assegnato la maggior parte degli ultimi fondi rimasti ad Università private.

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