Il sonno della ragione genera mostri: così pensava Francisco Goya nel 1799, quando anche la ragione, pur pretendendo di illuminare gli uomini sulla via del progresso, determinava soprusi ed eccessi da parte di chi aveva in mano in potere. Oggi, però, questa riflessione sembra tornare di attualità, soprattutto per quanto riguarda l’uso del linguaggio. Infatti, sia nel parlare comune, anche di persone ben scolarizzate, che nei discorsi dei politici e di altre persone di potere e notorietà in vari campi, si nota un fatto grave: l’abuso totale delle parole che non corrispondono più alle cose, cioè ai concetti che si vorrebbero esprimere, sulla base di un supposto “intanto si capisce”… . La gravità di questo fatto, che in politica è iniziata con la voluta ed esibita rimozione del congiuntivo, con il dilagare di frasi del tipo “Se avevo tempo lo facevo”, da nessuno censurate, ha finito per promuovere il totale non senso del parlare, anche senza arrivare agli eccessi del parlato comico-qualunquistico, del tutto incontrollato, del senatore del PdL Vincenzo Barba. Gli esempi che si potrebbero fare sono moltissimi, dagli strafalcioni della Gelmini in una lettera a Zaia (“ i dialetti sono le base della nostra cultura”; “i professori ad esempio devono sempre di più provenire dalla stessa regione nella quale insegna”; “per questo la polemica è distituita di qualsiasi fondamento soprattutto per chi è rivolta ad una persona che abita al confine con il Veneto”) a quelli che possiamo riprendere dal recente scomposto dibattitto che si è svolto al Senato e alla Camera sui provvedimenti del Governo Monti, durante il quale si sono sentite frasi come “si è ucciso perché non resisteva al pudore”, oppure “oggi si è svolto un altro capitolo negativo per il Parlamento”. Questi non sono svarioni grammaticali, solecismi, anacoluti o calchi dialettali (di cui anche i parlamentari danno prova, a cominciare dalla Gelmini, di cui possiamo ricordare “i carceri”, “piuttosto che anche”, “egìda”), ma sono lo specchio di una più profonda incapacità di usare la lingua come espressione di quel rigore logico e concettuale che dovrebbe sorreggere ogni espressione e collegarla alle altre del discorso in un rapporto di consequenzialità. Sembra che il parlare serva solo come freccia per aggredire e non per comunicare.
Siccome è stato detto che “lo stile è l’uomo” (George-Louis Leclerc de Buffon, Discours sur le style, 1753), è chiaro che questo parlare non sostenuto e vagliato dalla logica diventa indice del vuoto di riferimento di una generazione che ha smarrito tutti i parametri, a cominciare da quelli morali, non ha storia, perché non ha un progetto, non è in grado di disegnare un futuro per l’umanità. Tutto questo porta a vivere l’istante, trascinati dall’istinto, elemento irrazionale dell’uomo, che proprio la ragione, sulla base della logica, dovrebbe saper governare, per cui si trascende quando c’è un ostacolo, si aggredisce bestialmente l’emarginato, come fatti recenti, soprattutto quelli di Torino, dimostrano, in un reciproco caricarsi emotivo, non razionalmente controllato, per quell’annullamento dell’individuo nella folla, così ben analizzato e descritto nelle pagine mirabili del tumulto di Milano dal Manzoni.
L’accuratezza grammaticale, teorizzata da Aristotele, imponeva alla mente di conformarsi alla logica, per cui perdere la logica nell’esprimersi rivela una perdita tout court, perché il linguaggio è la spia della visione personale e collettiva del mondo. Facciamo solo due esempi: la struttura del periodo latino, ampia e articolata a piramide, con il susseguirsi delle proposizioni dipendenti di vario grado, rette da una principale, secondo le regole ferree della famigerata consecutio temporum, era lo specchio di una mentalità che propendeva per l’autoritarismo e il potere politico accentratore; l’avvento e la diffusione del cristianesimo hanno profondamente modificato la lingua latina, soprattutto facendo lievitare il lessico dell’astratto, proprio in conseguenza di una mentalità che alla concretezza terrena anteponeva l’apertura all’oltre. Oggi ci troviamo di nuovo di fronte ad una trasformazione epocale di mentalità, caratterizzata dalla perdita della logica.
Questo può dipendere da molti fattori: ad esempio, l’uomo non ha più un rilevante potere di scelta a livello economico, è trascinato da un vento che non controlla, mentre, al di fuori della realtà, cioè nel mondo virtuale, vive un’inesistente e fallace onnipotenza. Nello stesso tempo, il linguaggio in senso forte, è una contaminatio di culture, che non dialogano tra di loro, ma si allineano al livello più basso, quello più semplice ed immediato, che esprime l’emotività. Anche la produzione artistica allontana dalla logica, non tanto con il prevalere dell’astratto sul figurativo in pittura, in quanto i colori e la libertà delle forme hanno una loro validità, quanto piuttosto con il predominio dell’analogico e del liberamente associativo sul logico-consequenziale in poesia.
In definitiva, si potrebbe dire con Maritain che l’uomo, che ha la sua caratteristica intrinseca e specifica nella ragione, è ontologicamente mortificato, perché non pensa più, ma reagisce soltanto.