Anche se non è del tutto vero che l’historia
sia magistra vitae nel senso
che, conoscendo gli errori del passato si eviterà di ripeterli nel presente e
nel futuro, anche perché Cicerone con questa sua frase (De Or., II, 9, 36) voleva soprattutto esortare gli uomini del suo tempo
a guardare ed imitare i grandi esempi di virtù morale e civile del passato, è
pur vero che certe situazioni della storia possono fornire utili indicazioni
per meglio comprendere il presente ed aiutarci ad individuare linee d’indirizzo
per il futuro.
A questo proposito è interessante notare che in Francia attualmente è
molto vivace il dibattito sul libro dello storico e giornalista Michel De
Jaeghere, Les Derniers
Jours. La fine de l’empire romaine (Les Belles Lettres, Paris 2014),
un saggio di oltre seicento pagine che induce a
riflettere sulle ragioni di uno degli eventi più importanti della storia universale,
evidenziando certe analogie con la nostra attuale società.
Innanzitutto De Jaeghere
sottopone ad analisi critica quello che ormai è ovvio per gli storici
accademici, cioè che l'Impero Romano non cadde per colpa del
cristianesimo. La tesi secondo cui i cristiani, con il loro messaggio di amore
e di pace, avrebbero reso l'Impero imbelle di fronte ai barbari – già presente
in polemisti pagani dei primi secoli, come Celso - è stata elaborata e diffusa
dall'Illuminismo, in particolare da Voltaire, e poi ripresa da Edward Gibbon.
Ma, come evidenzia De Jaeghere, non è sostenibile. Agli inizi del V secolo,
infatti, i cristiani nell'Impero Romano d'Occidente erano solo il 10%, mentre
erano maggioranza nell'Impero d'Oriente, che invece resisterà alle invasioni e
durerà ancora mille anni. Bisogna ricordare invece che è proprio quella
minoranza cristiana, di alta levatura intellettuale, che cerca di mantenere in
vita Roma, con figure come Ambrogio e Agostino, ma anche con generali, come
Stilicone ed Ezio, che combattono contro gli invasori. Ci sono sì processi nei
confronti di singoli soldati che rifiutano di prendere le armi, in quanto cristiani,
ma sono una minoranza così esigua che non possono pesare sul piano militare.
Rimossa questa motivazione, resta pur sempre
la domanda su come l’Impero Romano sia potuto cadere. De Jaeghere considera con
attenzione la motivazione della “decadenza” al cui riguardo oggi gli storici
sono molto cauti. È vero che in quella che è l'attuale Italia, negli ultimi
secoli dell'Impero, 200.000 capifamiglia avevano diritto a somministrazioni
gratuite di cibo, che lavorassero o meno, situazione che ci riporta alle attuali
sempre più incalzanti proposte di reddito di cittadinanza. Inoltre i cittadini romani che lavoravano,
militari esclusi, avevano 180 giorni di vacanza all'anno, allietati da
spettacoli spesso crudeli, di cattivo gusto, tali da sollecitare gli istinti
peggiori. Ma di questo tipo di decadenza gli scrittori latini avevano iniziato
a lamentarsi fin dagli inizi dell’Impero, quando Roma era ancora militarmente
molto forte. Ed anche questa dell’assecondare il cattivo gusto è una tendenza
crescente ai nostri giorni, favorita e alimentata da internet e da un certo
tipo di programmazione televisiva.
La categoria di «decadenza», però, secondo
De Jaeghere, è fondamentale per comprendere questo rilevante fenomeno storico, ma
essa non è una causa di per sé, in quanto è essa stessa determinata da un insieme
di fattori che creano un «processo», in cui le diverse cause si legano ed
interagiscono tra di loro.
Lo storico francese identifica come causa
principale all'origine del processo la denatalità. Anche se il controllo delle
nascite presso i Romani non aveva i mezzi tecnici di oggi, diffusissimi erano
l'aborto e l'infanticidio, mentre andava sempre più aumentando il numero di
maschi adulti che preferivano relazioni omosessuali. Il risultato di
conseguenza divenne nel giro di poco tempo demograficamente disastroso: Roma
passò, infatti, dal milione di abitanti dei primi due secoli dell'Impero ai
20.000 della fine del V secolo, con una caduta del 98% della popolazione. Le
statistiche sulle campagne sono meno sicure, ma dal 30% al 50% degli
insediamenti agricoli vennero abbandonati negli ultimi due secoli dell'Impero,
non perché non fossero più redditizi, ma in quanto mancava la mano d’opera per
coltivare la terra. Ma perché si verificò questo fenomeno che potremmo chiamare
«suicidio demografico»? Lo storico francese sostiene che vennero lentamente
meno i due pilastri della cultura romana, la pietas e la fides, la
lealtà alle tradizioni morali e religiose trasmesse dai padri e la fedeltà alla
parola data e agli impegni assunti come cittadino romano nei confronti della
patria.
Già da tempo, però, la società romana aveva
iniziato a trasformarsi: nel I secolo d.C. l'aristocrazia romana da élite guerriera e militare tendeva a diventare progressivamente un’élite terriera e latifondista, che
riceveva a Roma i proventi dei propri possedimenti, sovente senza neppure mai
visitarli. Questa nuova élite era più
interessata ai piaceri della vita (e molti testi ce lo dimostrano, dal De re coquinaria di Apicio alle opere
poetiche di Marziale, Lucilio e Persio) che alla difesa dell'Impero,
considerato eterno e invincibile. In questo clima la natalità diminuisce,
appunto, in modo vertiginoso: tutte le famiglie tradizionalmente aristocratiche
dell'età di Augusto si estinguono prima del 300 d.C. tranne una, la gens Acilia, convertitasi al
cristianesimo. L'esempio delle classi dirigenti, come sempre accade, trovò facilmente
seguaci, per cui la moda del figlio unico, o di nessun figlio, arrivò in breve
fino alla plebe.
L'obiezione degli storici, soprattutto di area anglosassone, è che
tutto questo riguarda soprattutto Roma o comunque le grandi città, mentre
ancora nell'ultimo secolo dell'Impero la stragrande maggioranza della
popolazione vive nelle campagne. Ma anche qui, nota De Jaeghere, vengono meno
la pietas e la fides, soprattutto in quanto l'Impero, troppo multiculturale e
cosmopolita, è percepito come una lontana burocrazia che prende decisioni
troppo spesso incomprensibili e si fa viva quasi esclusivamente per aumentare
le tasse. Il piccolo proprietario di campagna nel migliore dei casi è disposto
a battersi per difendere il suo villaggio, non i remoti confini di un Impero
che percepisce come lontano e verso il quale non sente più nessun sentimento di
«patriottismo», nel peggiore, accoglie i «barbari» come liberatori dal fisco
romano che lo sta mandando in rovina.
All’origine del declino della pietas vi è certo il declino della
religione pagana che avrebbe potuto essere sostituita dal cristianesimo (come
di fatto avverrà, ma più tardi) il quale, come dimostra Sant'Agostino, avrebbe
saputo trovare in sé le ragioni per difendere l'Impero e la cosa pubblica, di
cui non si disinteressava affatto. Ma, come si è già visto, nell'Impero Romano
d'Occidente, anche quando lo professavano gli imperatori, il cristianesimo era
minoritario.
Vediamo più in dettaglio le
conseguenze della denatalità, molte, e tutte negative. Dal punto di
vista economico, meno popolazione significa meno produttori e di conseguenza meno
soggetti che pagano le tasse. L'Impero Romano cedette già allora alla tentazione
di tanti Stati che anche in seguito nella storia si vennero a trovare in
condizioni simili. Aumenta le tasse, fino a ridimensionare pesantemente
l'economia con la conseguenza di incassare sempre meno tasse, dato che, se le
imposte aumentano troppo, lo Stato finisce per incassare di meno, perché molti
vanno in rovina per cui non pagano più nulla. La caduta dell'Impero è
annunciata nel suo ultimo secolo dal precipitare del 90% degli introiti
fiscali. Nelle campagne molti piccoli proprietari, che non possono più pagare
le tasse, si danno alla criminalità e al banditismo.
Interessante è anche considerare il sistema
di produzione basato sulla schiavitù. Di fronte alla denatalità degli uomini liberi la
soluzione si cerca nell'aumentare la natalità degli schiavi, vietando loro di
praticare l'aborto e inducendoli a fare più figli con vari metodi di
persuasione. Nell'ultimo secolo dell'Impero nel territorio dell'attuale Italia
gli schiavi rappresentano il 35% della popolazione, ma non pagano tasse,
lavorano con poco impegno e quindi in modo scarsamente produttivo e non hanno
alcun interesse a difendere con le armi i loro padroni in caso di guerra. Inoltre
bisogna considerare che l'economia schiavista degli ultimi secoli dell'Impero
diventa anche statalista, in quanto sempre di più è lo Stato a gestire grandi
imprese agricole dove lavorano esclusivamente schiavi. Questa situazione, sia pure con caratteristiche diverse,
ricorda quella dei lavoratori e dei contadini sovietici, per lo scarso contributo
alla crescita economica.
Quando scarseggiano i cittadini, a causa
della denatalità, e gli schiavi non risolvono i problemi, gli Stati e gli imperi ricorrono
di solito, per ripopolare i loro territori, all’ immigrazione, anche in forma
massiccia. A proposito della caduta dell’Impero Romano si parla per abitudine
storica dei barbari invasori che avrebbero conquistato l’impero. Ma si
dimentica, come fa notare De Jaeghere, che l’invasione più rilevante non è
avvenuta per conquista, ma per immigrazione. Ad esempio, le misure prese per
indurre popolazioni germaniche a immigrare, non solo legalmente ma addirittura con
facilitazioni, per fare fronte al problema della denatalità, portano nel territorio
imperiale dal 376 al 411, un milione di immigrati. Certamente i «barbari»
emigrano nell'Impero, o lo invadono, perché nei loro territori la situazione è
pesante per la pressione degli Unni provenienti dall'Asia Centrale. Così è
per i Visigoti di Alarico che si stanziano nell’Impero in 250.000.
Oltre alle facilitazioni, è da imputare alle
classi dirigenti romane la decisione di reclutare gli immigrati per l'esercito,
cosa che avrà conseguenze rilevanti e fatali. Di fronte all’obiezione che
non sono cittadini romani, si concede loro rapidamente la cittadinanza, con la
conseguenza di snaturare le legioni. All'inizio del V secolo l'esercito romano
è più del doppio rispetto ai tempi di Augusto: da 240.000 uomini si è passati a
oltre mezzo milione. Il problema è che più della metà sono immigrati di origine
germanica. Di conseguenza sono «barbari» in maggioranza i legionari, anche se
continuano ad essere romani i comandanti e soprattutto gli imperatori da cui le
legioni prendono ordini, ma ad un certo punto i «barbari» si rendono conto
appunto di essere la maggioranza dei soldati, così non accettano più la
dirigenza militare dei Romani e, alla fine, uccidono i generali e li
sostituiscono con uomini loro, per cui si uniscono agli invasori, in quanto
etnicamente affini, anziché respingerli e pongono fine all’Impero,
impadronendosene.
Del resto, secondo De Jaeghere, da secoli
Roma aveva un atteggiamento d’invito all'immigrazione nei confronti delle
popolazioni germaniche. Le foreste del Nord sembravano ai Romani un mondo
caotico, dove bande e capi si uccidevano tra loro, inoltre lo consideravano un
territorio con poche ricchezze da portare a Roma. Di qui la decisione di
disinteressarsi di una vasta area nord-europea, lasciando che lì si formassero
lentamente le forze che poi avrebbero aggredito e distrutto l'Impero, anche
perché la rete dei commerci informava questi «barbari» delle ricchezze e del
benessere di Roma, scatenando i loro desideri.
Pur con tutte le cautele
che richiede ogni paragone fra epoche storiche molto diverse, la caduta di Roma
mostra come anche grandi civiltà possano finire, e che una delle cause più
rilevanti della loro scomparsa è quella demografica, in quanto la denatalità
innesca una spirale di altre cause, dalle tasse non più sostenibili, allo statalismo
dell'economia, all’immigrazione senza regole, all’indebolimento degli eserciti.
Occorre, però evidenziare in particolare una
differenza: gli immigrati e gli invasori di Roma erano molto diversi dagli immigrati di
oggi per mentalità e cultura. Infatti, in gran parte germanici, non erano portatori
di una cultura forte, per cui riconoscevano la superiorità di quella romana e
di conseguenza cercarono di appropriarsene con ogni mezzo e in ogni aspetto, fino
a convertirsi al cristianesimo. Oggi,
invece, gli immigrati e soprattutto gli aspiranti invasori in armi, come
il Califfato, sono portatori di un pensiero fortissimo: non pensano di dover
assimilare la nostra cultura, ma vogliono convincerci della superiorità della
loro, il che rende la situazione ancora più difficile e pericolosa.
Il saggio di De Jaeghere è una
lettura molto interessante, appassionante per come è condotto il lavoro, con
ricchezza di documentazione e vivacità espositiva. È senz’altro un testo capace
di stimolare la discussione e aprire prospettive d’indagine anche da noi, per
cui è auspicabile una buona traduzione nel nostro paese per renderlo
disponibile al vasto pubblico.