lunedì 6 febbraio 2017

IN 600 CONTRO LA SCUOLA


Rosa Elisa Giangoia

La lettera che hanno scritto i 600 docenti universitari sulla inadeguatezza della conoscenza della lingua italiana da parte degli studenti universitari è la denuncia  della grave incapacità del nostro sistema scolastico di fornire a tutti competenze adeguate ad un uso attivo e passivo della lingua madre, requisito base per accedere a tutte le altre conoscenze e competenze, sia di ambito umanistico che tecnico-scientifico, per cui la scuola dovrebbe farsi carico di portare tutti ad un adeguato livello.
Testo interessante, ma poco efficace, per il fatto che constata un fallimento, ma non ne affronta le cause e non propone nessuna strategia che possa risolvere o almeno migliorare la situazione.
Se basso  è il livello di quanti accedono all'Università, è facilmente immaginabile quale sia quello di chi ha completato l’obbligo scolastico a 16 anni o anche di tutti gli altri che, magari, pur avendo studiato fino alla maturità, non hanno voglia o opportunità di proseguire, anche se oggi l’Università continua spesso a ricoprire il ruolo di “parcheggio” per i giovani, data la grande difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro per la fascia 18-25 anni.
La denunciata scarsa conoscenza della lingua italiana ha origini e cause lontane e complesse, cause nei confronti delle quali la scuola deve prendere consapevolezza del  proprio fallimento.
Per analizzare il problema occorre tracciare un minimo di retrospettiva storica.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso accedevano agli studi medio superiori davvero solo “i capaci e i meritevoli”, raramente sostenuti da quegli aiuti che la Costituzione prevedeva, quasi sempre grazie ai sacrifici dei genitori che si impegnavano per dare maggiori opportunità ai figli. Si trattava, però, di ragazzi motivati nello studio, con buone capacità e determinazione, sostenuti anche dall'idea che quegli anni di impegno nello studio avrebbero poi consentito loro occasioni di lavoro adeguate nella vita. 

In questi casi la difficoltà dell’apprendimento della lingua italiana era per lo più dovuta alla persistenza dell’uso del dialetto nell'ambito familiare e sociale, quindi con diversificazioni regionali, ma abbastanza facilmente individuabili e superabili.
In seguito, grazie anche alle migliorate condizioni socio-economiche del nostro paese, la frequenza agli istituti medi superiori è diventata progressivamente sempre più ampia, con diversificazione sociologica degli studenti, caduta dell’uso dei dialetti, forte aiuto della radio e della tv per il progressiva diffuso  miglioramento dell’uso della lingua. Ma, nello stesso tempo la scuola ha iniziato la sua rapida discesa, con gli snodi determinanti della semplificazione dell’esame di maturità e dell’abolizione degli esami di riparazione, che hanno portato all'accettazione di lacune disciplinari, non essendo possibile per ragioni economiche compensarle con adeguati corsi di recupero. Questo ha creato un ulteriore abbassamento del livello con promozioni  per voto di consiglio (per i non addetti ai lavori vuol dire far diventare sufficiente un’insufficienza anche grave in sede di scrutinio) quando la scuola non era in grado di provvedere didatticamente.
Nel frattempo i vari Ministri della Pubblica Istruzione di sinistra e di destra che si sono susseguiti nei decenni hanno dato i loro negativi contributi con scelte inopportune che sono iniziate con la liberalizzazione degli accesi universitari dettata dalla demagogia pseudomarxista  di uno poco  equilibrato come  Donat Cattin  (lui stesso non laureato) e sono proseguite  con le sperimentazioni mai verificate, con i corsi di aggiornamento per insegnanti “fai da te”, con il cambiare i nomi degli istituti tecnico-professionali, facendoli diventare tutti licei (da quello della Panificazione a quello della Moda!), dando eccessiva enfasi alle famose tre “i” (impresa, informatica, inglese) e nello teso tempo, rendendo le classi più affollate, demotivando i docenti con l’eccessivo precariato, eliminando la continuità didattica.
Tutto questo ha trasformato la scuola in un sempre più lungo e affollato parcheggio per giovani, sempre più diversificati  anche per l’accesso degli immigrati di lingue e culture molto differenti, giovani che non sempre accedono alla scuola con seria motivazione e determinazione, ma piuttosto per l’obbligo fino a 16 anni (sulla cui organizzazione e offerta ci sarebbe molto da dire!), e poi per mancanza di alternative, sovente sfiduciati per la consapevolezza che, usciti dalla scuola, non avranno una condizione lavorativa adeguata.
Di fronte a tutto questo ci sarebbe voluta una seria politica di rielaborazione della didattica funzionale alla realtà, mentre tutto è affidato alla buona volontà e alle capacità d’iniziativa degli insegnanti (i meno pagati d’Europa!). Sarebbe stato importante ricordarsi della Lettera a una professoressa e della Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, per capire che non è un buon criterio quello di abbassare la qualità  nell'assunto che non tutti possono accedere... Infatti la Scuola di Barbiana è stata un esempio dell’importanza di  legare l'istruzione alla vita (quella degli emarginati), ma nel contempo dell’attenzione a mantenere la qualità  dell' insegnamento. Riprodurla su larga scala, sarebbe stato molto, molto costoso…
Gli ultimi interventi nella scuola hanno visto diminuzioni di ore di insegnamento di Italiano e di Latino nei licei classici e scientifici, quindi provvedimenti non certo utili ad un miglioramento delle conoscenze della lingua italiana da parte dei ragazzi, anche se per chi esce da questi due tipi di scuola la tenuta è ancora buona. Il problema si pone per tutti quei ragazzi diplomati in licei tali solo di nome, nonché negli istituti tecnico-professionali, tutti con possibilità di accedere a qualunque facoltà universitaria. Ragazzi con scarsissimo retroterra di cultura familiare, non abituati alla lettura e all’ascolto della radio, spettatori di tv spazzatura, ghettizzati  in ambienti periferici autoreferenziali, privi di contatti con altre agenzie educative (tramontati ormai gli oratori e le scuole di partito!), frequentatori dei social, con l’unico contatto culturale rappresentato dalla scuola, incapace di fronteggiare bisogni educativi di massa e di far corrispondere le valutazioni ai livelli reali di apprendimento.
Come risolvere la situazione? La risposta sembrerebbe ovvia: eliminando il lassismo dilagante nella scuola italiana, ponendo delle barriere per cui chi non ha acquisito conoscenze e competenze sufficienti non va avanti fino a quando non ha adeguatamente colmato le sue lacune, per raggiungere il quale obiettivo la scuola dovrebbe metter in atto strategie efficaci, naturalmente con impiego di risorse.
Purtroppo l’andazzo sembra opposto: le prime iniziative del neo-ministro Valeria Fedeli vanno in tutt'altra direzione. Innanzitutto dal 2018 si abolirà la terza prova dell’esame di maturità, che almeno obbligava gli studenti a studiare alcune materie, tra cui l’Inglese, sempre presente, poi si verrà ammessi all'esame di maturità anche con insufficienze in alcune discipline, purché la media (a cui concorrono anche Educazione Fisica e Condotta) sia sufficiente. Non sarà raro, lo prevediamo con cognizione di causa, che studenti con l’insufficienza in tutte le materie vengano ammessi avendo 10 in Educazione Fisica e Condotta!
Viene da chiedersi perché tutto questo. Non ricorriamo all'antica presunzione del sovrano che pensava che fosse meglio l’ignoranza del popolo così lui sarebbe apparso colto, pensiamo che la ministra Fedeli, priva di un diploma di maturità quinquennale, tema che l’esame lo facciano sostenere a lei!

A questo punto la salvezza potrebbe venire solo dai docenti universitari che dovrebbero stabilire rigorosi esami di verifica delle conoscenze e delle competenze per l’accesso a tutte le facoltà. Abbiamo seri dubbi che questo accada: il Ministro della Pubblica Istruzione è anche Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica…