Rosa Elisa Giangoia
Il
Decreto Legge che sta per essere approvato in Parlamento non
risolve il nodo
problematico che attualmente incombe sulla scuola, in vista
della ripresa
dell’anno scolastico a settembre, quando, in base
all’andamento del contagio,
si dovranno decidere le modalità didattiche.
Preoccupa
soprattutto la dichiarazione dell’improvvida e inesperta
ministra Azzolina
secondo cui «la didattica a distanza avrà un ruolo centrale».
Questa
è stata la soluzione, speravamo momentanea e provvisoria, che
il governo, preso
alla sprovvista, ha
scelto a partire da
marzo scorso, quando le scuole sono state chiuse, una scelta
caduta sulle
spalle di insegnanti del tutto impreparati e di famiglie
disorganizzate.
Fin
da subito se ne avvertivano i limiti, le carenze e le
difficoltà, che ora, dopo
mesi di pratica, emergono con tutto il loro rilievo.
Occorre
innanzitutto una riflessione sull’essenza del metodo
educativo, sulla paideia,
che può realizzarsi solo in una condizione di reciprocità
interpersonale tra
educatore-educando da vivere in dialogo, in una situazione
viva e reale.
Solo
la mitizzazione della tecnologia, oggi quanto mai diffusa, e
fatta propria
soprattutto dal movimento 5stelle, può pensare che una
crescita umana e
intellettuale possa avvenire passando attraverso la freddezza
di uno schermo
che vanifica tutto quanto attiene alla sfera emotiva.
A
questo vanno aggiunte molte altre considerazioni più
specificamente didattiche.
Innanzitutto
l’insegnamento a distanza, praticato da alcune agenzie, solo
per giovani-adulti
o per adulti, non per bambini, per recupero anni o
conseguimento di lauree, non
è assolutamente una lezione in presenza fruita tramite uno
strumento
tecnologico, ma è un procedimento didattico con una sua
precisa
caratterizzazione che comporta specifiche competenze e
opportune strategie.
A
tutto questo gli insegnanti italiani erano completamente
impreparati e, ancora
una volta, hanno dovuto fare tutto da soli, dall’avere in casa
gli strumenti
informatici, dal sapere usare le nuove tecnologie con le
piattaforme adatte,
oltre a organizzarsi per la propria didattica disciplinare con
tipologia in
rete.
Ma
va preso in considerazione anche il versante pratico degli
studenti: i bambini
delle prime classi delle elementari non erano, almeno
inizialmente, in grado di
accedere autonomamente alle lezioni in rete, per cui si è reso
determinante
l’intervento dei genitori (o dei fratelli maggiori) che non
sempre avevano
anche loro competenze informatiche adeguate, per non parlare
di quelle case in
cui il computer non c’era ancora (so che in qualche paese
dell’Appennino Ligure
hanno portato un tablet i carabinieri, dopo qualche tempo, ai
bambini perché
potessero seguire le lezioni), o, ancora peggio, di quanti
abitano in zone dove
la connessione è debole e fragile o addirittura non è ancora
arrivata… Ci sono
poi le famiglie in cui i genitori fanno entrambi telelavoro in
casa e magari ci
sono due o tre figli che devono seguire le lezioni in rete.
Tutto, ancora una
volta, sulle spalle delle famiglie…
Inoltre
la didattica a distanza è limitativa, perché non permette
l’uso di laboratori e
di altre aule speciali e attrezzature di cui hanno bisogno
tante discipline.
Per non parlare del danno psicofisico dello stare per molto
tempo davanti allo
schermo del pc e della mancanza di relazioni interpersonali
tra coetanei.
Riguardo
alla riapertura delle scuole la posizione del governo resta,
però, al momento
fluida, incerta, senza che in tutti questi mesi siano stati
fatti progetti
proficui di una qualche attuabilità. Purtroppo, in alternativa
alla didattica a
distanza, sta venendo fuori un’altra possibilità, che
definirei inquietante,
quella di ingabbiare i bambini e i ragazzi in divisori,
capsule, cabine di
plexiglass trasparente. Almeno molto inquietante mi è apparsa
la fotografia di
un’aula del liceo artistico Manzù di Bergamo dove queste
strutture sono già
state installate. Altri parlano invece di tensostrutture da
predisporre nei
cortili delle scuole o in altri spazi aperti, per aumentare la
disponibilità di
aule. A parte verificare se i divisori in plexiglass siano
veramente utili per
limitare la diffusione del contagio, perché ci sono anche i
momenti di entrata
e uscita da scuola, le ricreazioni, l’uso dei servizi
igienici, ma mi chiedo se
quelli che li hanno progettati pensino che i bambini e gli
adolescenti stiano
lì immobili per sei/otto ore. Li hanno mai visti? O sono come
quei pedagogisti
di cui parlava don Milani? E poi c’è da temere che li
danneggino, magari
infortunandosi, o li distruggano nel giro di poco tempo e
ancora, quando sarà
finita la pandemia, dove e come si smaltiranno, dato che non
sono certo
biodegradabili? Mi pare che sia tutto denaro pubblico buttato
via. Peggio
ancora le tensostrutture: quando in molte regioni ci sono in
inverno diversi
gradi sotto zero, cosa si fa? Si spendono grandi somme per il
riscaldamento, di
cui poco sarà usufruito e molto disperso nell’ambiente?
Che
la ministra Azzolina sia incompetente e inesperta lo sappiamo,
ma tutti quegli
esperti che sono stati arruolati, a nostre spese, non sanno
proporre proprio
niente di meglio?
Una terza possibilità ci sarebbe, ma è più impegnativa. È quella ipotizzata da un gruppo di docenti di Genova in un documento inviato qualche settimana fa al ministro.
Una terza possibilità ci sarebbe, ma è più impegnativa. È quella ipotizzata da un gruppo di docenti di Genova in un documento inviato qualche settimana fa al ministro.
Si
dovrebbero dividere le classi in due gruppi di 12/15 allievi
che potrebbero
essere sistemati nelle normali classi delle nostre scuole a
distanza di
sicurezza, uno per banco, con orari scolastici ridotti se non
proprio
dimezzati. In classe si dovrebbe svolgere una didattica
disciplinare intensiva,
incentrata sulla trasmissione delle conoscenze fondamentali,
mentre molte altre
attività formative potrebbero essere svolte in altre sedi,
anche con modalità
interdisciplinare, ad iniziare da quelle motorie e sportive da
praticare nelle
apposite strutture, per passare poi alle biblioteche, ai
musei, agli orti
botanici, agli acquari, alle fattorie didattiche, ecc. ecc.
Fuori da questo
orario si dovrebbe procedere alle verifiche con colloqui
singoli o altre
modalità, individuali o a piccoli gruppi, evitando così quei
tempi “morti” in
classe in cui l’insegnate interroga uno studente nel
disinteresse della maggior
parte della classe.
Naturalmente
per tutto questo occorre aumentare il numero dei docenti, che,
vanno assunti
con una selezione seria, per valutare competenze e capacità,
quindi con una
procedura concorsuale da attuare quanto prima. Ma c’è da
chiedersi perché si
preferisca favorire economicamente certe categorie, come i
produttori di
plexiglass e di tensostrutture, piuttosto che gli insegnanti.
Inoltre ci vuole
un notevole sforzo di progettualità dell’organizzazione
didattica, ma lo
dobbiamo fare per i nostri giovani. Non possiamo permetterci
di perdere
scolasticamente una generazione che già quest’anno ha corso
grossi rischi. Non
può ripetersi quanto è accaduto durante il secondo conflitto
mondiale, quando,
essendo la scuola ancora una questione privatistica delle
famiglie, solo un
certo livello sociale ha potuto portare avanti gli studi,
mentre troppi sono
rimasti esclusi, ora della scuola si deve far carico lo Stato,
assicurandola a
tutti, come prescrive la Costituzione.
C’è
anche da sperare, però, anche in un impegno attivo e partecipe
da parte dei
docenti, in una disponibilità che al momento, spiace dirlo,
non stanno
dimostrando evitando in troppi di presiedere le commissioni
per gli esami di
maturità.