sabato 6 giugno 2020

NÉ DIDATTICA A DISTANZA NÉ GABBIETTE

Rosa Elisa Giangoia
  
Il Decreto Legge che sta per essere approvato in Parlamento non risolve il nodo problematico che attualmente incombe sulla scuola, in vista della ripresa dell’anno scolastico a settembre, quando, in base all’andamento del contagio, si dovranno decidere le modalità didattiche.
Preoccupa soprattutto la dichiarazione dell’improvvida e inesperta ministra Azzolina secondo cui «la didattica a distanza avrà un ruolo centrale».
Questa è stata la soluzione, speravamo momentanea e provvisoria, che il governo, preso alla sprovvista,  ha scelto a partire da marzo scorso, quando le scuole sono state chiuse, una scelta caduta sulle spalle di insegnanti del tutto impreparati e di famiglie disorganizzate.
Fin da subito se ne avvertivano i limiti, le carenze e le difficoltà, che ora, dopo mesi di pratica, emergono con tutto il loro rilievo.
Occorre innanzitutto una riflessione sull’essenza del metodo educativo, sulla paideia, che può realizzarsi solo in una condizione di reciprocità interpersonale tra educatore-educando da vivere in dialogo, in una situazione viva e reale.
Solo la mitizzazione della tecnologia, oggi quanto mai diffusa, e fatta propria soprattutto dal movimento 5stelle, può pensare che una crescita umana e intellettuale possa avvenire passando attraverso la freddezza di uno schermo che vanifica tutto quanto attiene alla sfera emotiva.
A questo vanno aggiunte molte altre considerazioni più specificamente didattiche.
Innanzitutto l’insegnamento a distanza, praticato da alcune agenzie, solo per giovani-adulti o per adulti, non per bambini, per recupero anni o conseguimento di lauree, non è assolutamente una lezione in presenza fruita tramite uno strumento tecnologico, ma è un procedimento didattico con una sua precisa caratterizzazione che comporta specifiche competenze e opportune strategie.
A tutto questo gli insegnanti italiani erano completamente impreparati e, ancora una volta, hanno dovuto fare tutto da soli, dall’avere in casa gli strumenti informatici, dal sapere usare le nuove tecnologie con le piattaforme adatte, oltre a organizzarsi per la propria didattica disciplinare con tipologia in rete.
Ma va preso in considerazione anche il versante pratico degli studenti: i bambini delle prime classi delle elementari non erano, almeno inizialmente, in grado di accedere autonomamente alle lezioni in rete, per cui si è reso determinante l’intervento dei genitori (o dei fratelli maggiori) che non sempre avevano anche loro competenze informatiche adeguate, per non parlare di quelle case in cui il computer non c’era ancora (so che in qualche paese dell’Appennino Ligure hanno portato un tablet i carabinieri, dopo qualche tempo, ai bambini perché potessero seguire le lezioni), o, ancora peggio, di quanti abitano in zone dove la connessione è debole e fragile o addirittura non è ancora arrivata… Ci sono poi le famiglie in cui i genitori fanno entrambi telelavoro in casa e magari ci sono due o tre figli che devono seguire le lezioni in rete. Tutto, ancora una volta, sulle spalle delle famiglie…
Inoltre la didattica a distanza è limitativa, perché non permette l’uso di laboratori e di altre aule speciali e attrezzature di cui hanno bisogno tante discipline. Per non parlare del danno psicofisico dello stare per molto tempo davanti allo schermo del pc e della mancanza di relazioni interpersonali tra coetanei.
Riguardo alla riapertura delle scuole la posizione del governo resta, però, al momento fluida, incerta, senza che in tutti questi mesi siano stati fatti progetti proficui di una qualche attuabilità. Purtroppo, in alternativa alla didattica a distanza, sta venendo fuori un’altra possibilità, che definirei inquietante, quella di ingabbiare i bambini e i ragazzi in divisori, capsule, cabine di plexiglass trasparente. Almeno molto inquietante mi è apparsa la fotografia di un’aula del liceo artistico Manzù di Bergamo dove queste strutture sono già state installate. Altri parlano invece di tensostrutture da predisporre nei cortili delle scuole o in altri spazi aperti, per aumentare la disponibilità di aule. A parte verificare se i divisori in plexiglass siano veramente utili per limitare la diffusione del contagio, perché ci sono anche i momenti di entrata e uscita da scuola, le ricreazioni, l’uso dei servizi igienici, ma mi chiedo se quelli che li hanno progettati pensino che i bambini e gli adolescenti stiano lì immobili per sei/otto ore. Li hanno mai visti? O sono come quei pedagogisti di cui parlava don Milani? E poi c’è da temere che li danneggino, magari infortunandosi, o li distruggano nel giro di poco tempo e ancora, quando sarà finita la pandemia, dove e come si smaltiranno, dato che non sono certo biodegradabili? Mi pare che sia tutto denaro pubblico buttato via. Peggio ancora le tensostrutture: quando in molte regioni ci sono in inverno diversi gradi sotto zero, cosa si fa? Si spendono grandi somme per il riscaldamento, di cui poco sarà usufruito e molto disperso nell’ambiente?
Che la ministra Azzolina sia incompetente e inesperta lo sappiamo, ma tutti quegli esperti che sono stati arruolati, a nostre spese, non sanno proporre proprio niente di meglio?
Una terza possibilità ci sarebbe, ma è più impegnativa. È quella ipotizzata da un gruppo di docenti di Genova in un documento inviato qualche settimana fa al ministro.
Si dovrebbero dividere le classi in due gruppi di 12/15 allievi che potrebbero essere sistemati nelle normali classi delle nostre scuole a distanza di sicurezza, uno per banco, con orari scolastici ridotti se non proprio dimezzati. In classe si dovrebbe svolgere una didattica disciplinare intensiva, incentrata sulla trasmissione delle conoscenze fondamentali, mentre molte altre attività formative potrebbero essere svolte in altre sedi, anche con modalità interdisciplinare, ad iniziare da quelle motorie e sportive da praticare nelle apposite strutture, per passare poi alle biblioteche, ai musei, agli orti botanici, agli acquari, alle fattorie didattiche, ecc. ecc. Fuori da questo orario si dovrebbe procedere alle verifiche con colloqui singoli o altre modalità, individuali o a piccoli gruppi, evitando così quei tempi “morti” in classe in cui l’insegnate interroga uno studente nel disinteresse della maggior parte della classe.
Naturalmente per tutto questo occorre aumentare il numero dei docenti, che, vanno assunti con una selezione seria, per valutare competenze e capacità, quindi con una procedura concorsuale da attuare quanto prima. Ma c’è da chiedersi perché si preferisca favorire economicamente certe categorie, come i produttori di plexiglass e di tensostrutture, piuttosto che gli insegnanti. Inoltre ci vuole un notevole sforzo di progettualità dell’organizzazione didattica, ma lo dobbiamo fare per i nostri giovani. Non possiamo permetterci di perdere scolasticamente una generazione che già quest’anno ha corso grossi rischi. Non può ripetersi quanto è accaduto durante il secondo conflitto mondiale, quando, essendo la scuola ancora una questione privatistica delle famiglie, solo un certo livello sociale ha potuto portare avanti gli studi, mentre troppi sono rimasti esclusi, ora della scuola si deve far carico lo Stato, assicurandola a tutti, come prescrive la Costituzione.

C’è anche da sperare, però, anche in un impegno attivo e partecipe da parte dei docenti, in una disponibilità che al momento, spiace dirlo, non stanno dimostrando evitando in troppi di presiedere le commissioni per gli esami di maturità.