venerdì 31 maggio 2019

DAL TEMPO ALL'ETERNO


Relazione tenuta da Carlo Biancheri in occasione della presentazione del romanzo FEBE. Dal tempo all'eterno il 16 maggio 2019 presso l'Oratorio di San Filippo a Genova.

***

«Vi raccomando Febe nostra sorella che è diaconessa della Chiesa di Cencre, affinché voi la riceviate nel Signore in maniera degna dei santi e l’assistiate in tutte le cose di cui avrà bisogno perché essa pure ha assistito molti ed anche me». Così dice san Paolo nella conclusione della Lettera ai Romani  (Rm 16,1), quando invia i saluti finali ai destinatari del suo messaggio che vivono a Roma.
Febe è quindi una donna greca di cui sappiamo solo questo dalle parole di Paolo, per cui l’autrice del romanzo si impegna nell’”invenzione della verità”, immaginando l’esistenza di questa donna nello scenario del suo tempo.
È una donna  di Cencre, piccolo centro sul mar Egeo, non lontano da Corinto (il canale per attraversare l’istmo allora non c’era ancora, iniziato da Nerone e poi abbandonato, perché costava troppo, è stato costruito solo 1800 anni dopo…) che vive il suo tempo, si interroga sul senso della vita e si imbatte in un annuncio nuovo, scandaloso per la sua cultura, quello del Vangelo che le arriva attraverso le parole di Paolo.
La domanda centrale di questo romanzo è dunque quale sia l’impatto del messaggio cristiano nel contesto culturale greco-romano.
Ma, per trovare una risposta e comprenderla appieno, bisogna esaminare com’era il mondo greco-romano nei primi decenni dopo Cristo. In primo luogo, materialista e individualista, con la vita percepita come un’illusione in vista dell’eternità oppure nella perennità materiale degli atomi, secondo  Democrito. Esempi quotidiani di materialismo erano dati dalla diffusa pratica dell’aborto, dall’edonismo dilagante, dalla frequenza dei divorzi, dall’immoralità in cui erano cadute le matrone che si pagavano i piaceri con gli schiavi, dall’omosessualità diffusa, dall’abitudine di acquisire denaro con la corruzione e con altri mezzi illeciti. Comportamenti analoghi venivano anche dall’alto: basti pensare che Livia fu consegnata in moglie ad Augusto dal precedente marito, di lui incinta, o che Giulia, figlia di Augusto, accusata di immoralità, fu lasciata morire di fame nelle isole Pontine o che, tra congiure e complotti, Nerone uccise la madre Agrippina.
Va detto che  nessuna civiltà si era interrogata  così profondamente sulla vita e sull’uomo prima di quella greca. In Egitto si descriveva la vita presente e la futura senza soluzione di continuità con gli dei buoni o malvagi onnipresenti, come un doppio nel quotidiano.
Étienne Gilson nel suo saggio Dieu et la Philosophie,  ricorda che tutto ha inizio con Talete di Mileto che sostiene che il primo principio da cui è nata ogni cosa  è l’acqua, ma Aristotele  aggiunge che sosteneva  che  «Tutte le cose sono piene di dei».
Come conciliare queste due affermazioni? Il fatto è che Talete non parla che di energie fisiche, quando si riferisce agli dei, e così faranno i suoi successori, come Anassimandro che descrive l’indefinito come principio divino o Anassimene che sostiene che l’aria infinita è la causa prima di tutto ciò che è, dei ed esseri…
E allora come si definisce un dio? Bisogna rifarsi ad Omero ed Esiodo.
Nell’Iliade sembra che il termine dio si riferisca ad una serie di oggetti  differenti, moltissimi.
Quando Zeus convocava tutti gli dei sull’Olimpo non vengono solo  i capricciosi  abitanti lì residenti, ma tutti i fiumi, tranne Oceano, erano presenti, tutte le ninfe dei fiumi, delle praterie, degli stagni, delle sorgenti, e poi il Cielo e la Terra erano dei e  tutte le grandi fatalità naturali: il Terrore, la Sconfitta, la Discordia, la Morte, il Sonno, signore di tutti gli dei e di tutti gli uomini per legge universale, anche se, diversamente dai mortali, gli dei non muoiono, dormono.
Gli dei  invadono gli uomini, come dimostra la collera di Achille che tanti guai generò ai Greci, dovuta all’ingiusto comportamento di Agamennone che, però, nell’Iliade si giustifica dicendo: «l’ingiustizia non era mia, ma era colpa di Zeus, delle Erinni che hanno gettato il furore nel mio animo. Che potevo fare? Un dio ha fatto ciò».
E poi c’era il Fato, il Destino, contro cui neppure Zeus poteva nulla. Zeus temeva la moglie Hera che lo rimproverava quando si vedevano, peraltro raramente, e a Zeus non fu possibile difendere dalla Morte neppure il figlio amato Sarpédone, ucciso da Patroclo; Hera gli dice: «non puoi intervenire e mutare il destino».
Per queste ragioni un greco religioso si sentiva il campo di battaglia di influenze divine spaventose e troppo spesso in conflitto tra loro, anche se Pindaro dice che sono gli dei che procurano ai mortali tutti i mezzi per realizzare ciò che desiderano ed è grazie agli dei che gli uomini sono saggi coraggiosi ed eloquenti.
Per questo il Pantheon era venerato e, insieme agli abitanti dell’Olimpo, anche gli antenati, gli dei domestici, erano oggetto di preghiera e venerazione: se si tratterà di un viaggio per mare ci si rivolgerà a Poseidone, per una malattia ad Esculapio, ma per gli spirituali e gli intellettuali c’erano i misteri di Eleusi, che comportavano un’iniziazione e che attenevano alla vita ed alla morte, al destino dell’uomo ed all’al di là.
Febe si avvicina anche a loro, ma non trova una risposta profonda,soddisfacente.
E c’era la gnosi con cui anche Febe si confronta. Erano quelli che sostenevano (come nel romanzo, il maestro Cerinto, venuto dalla Siria) che la materia è decadenza, mentre lo spirito è liberazione, e che l’io divino è prigioniero della materia da cui lo spirito deve liberarsi mediante la conoscenza. Chi raggiungeva questo era uno pneumatico, contrapposto agli ilici, cioè agli uomini comuni materiali; solo allo spirito, frammento dell’anima del mondo, sarebbe stata assicurata l’immortalità, il ricongiungimento con il soffio vitale, primo principio creatore. La malvagità della materia dipendeva da un difetto delle sfere celesti, mentre lo spirito  aveva in sé qualcosa di divino.
L’autrice fà intervenire Paolo in questo contesto intellettuale che  aveva ormai trascurato gli dei dell’Olimpo. Lui annuncia la creazione/genesi, il peccato originale, ma  soprattutto Cristo morto e risorto. In particolare sostiene che anche gli umani risorgeranno in anima e corpo, avendo acquisito, con la vita da seguaci di Gesù, la padronanza su di sé, tanto da consentire allo spirito di esprimersi.
Il maestro gnostico sostiene la posizione dualistica con la contrapposizione tra spirito e materia, dove  la materia è sentita come malvagia, tanto che riguardo ai rapporti sessuali sostiene che non bisogna avere alcun senso di colpa, perché la materia è decadenza: quel che conta è la comprensione spirituale. Non sono per caso le tesi illuministiche elaborate nel Settecento? Di certo al tempo della Rivoluzione Francese, senza arrivare all’Essere supremo di Robespierre, si professava qualcosa di molto simile.
E poi quando l’allegra brigata dell’Olimpo era sempre meno ossequiata, e lo era solo dal popolo minuto, compare Epicuro che ritiene che gli dei siano esseri materiali che esistono dall’eternità, la cui beatitudine consiste nell’impassibilità e quindi men che meno manifestano un qualche interesse per gli uomini, e poi gli Stoici: per loro il dio è il fuoco che unifica tutto e a causa sua il mondo è uno; un’armonia che si diffonde in tutte le cose, una simpatia che tiene insieme le sue parti per cui ciascuno di noi si trova in lui come una delle sue numerose parti. La causa del mondo è un torrente che trascina tutte le cose. La natura del Tutto si sente spinta alla creazione di un universo e ciò che regge tutto è la Ragione sovrana dell’Universo. Così si arriva fino a Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, che però non ha dei: la sua è una saggia rassegnazione disperata, dice Gilson.
Platone, invece, che ha inventato le idee come spiegazione filosofica, non divina, non ha inventato gli dei che appaiono nella sua dottrina come un’eredità venerabile degli antichi (la mitologia) e li spiega descrivendo  un essere vivente che si muove in modo intenzionale, noi diciamo che ha un’anima e questo è qualcosa di divino. E come riconoscere il movimento delle stelle? Anch’esse hanno qualcosa di divino.
Più avanti parleremo di Aristotele.
Questo il quadro delle varietà di pensiero in cui si viene a trovare Febe.
Lei parte dalla domanda se esista qualcosa che tenga conto delle sofferenze umane, se ci sia qualcuno che ascolti  il dolore dell’uomo, che raccolga  le lacrime; che fosse un dio, oppure tanti dei, non le pareva importante, purché vedesse le sofferenze, quelle nascoste di cui altri uomini ed altre donne, anche se vivono vicino a noi, di solito non si accorgono.
Il confronto con la gnosi, di cui si è accennato, oppone il dio gnostico al  Dio di Paolo. Il dio degli gnostici è un dio di amore che attira tutti a sé, tramite le particelle dello spirito che sono cadute nella materia e non castiga, né punisce… Ma sono gli stessi seguaci che non si sanno spiegare le ragioni dei dolori, delle sofferenze e delle malvagità per cui si chiedono chi le imponga, ma senza risposta.
Qui interviene Paolo con un discorso antropologico che si incentra sul fatto che nessuno deve procurare male agli altri (neminem ledere), cioè nessuno deve commettere omicidi, frodi, ingiustizie, malvagità, nessuno deve agire con cupidigia, con malizia, per invidia, di conseguenza non bisogna essere superbi né vanagloriosi; bisogna aborrire calunnia e maldicenza. Di fronte a queste parole di Paolo tutto il consesso si avvertì colpevole in qualche modo per cui la diatriba intellettuale non proseguì.
Nel romanzo si pone quindi come centrale il confronto tra le risposte del mondo greco-romano e quelle del Vangelo di Paolo ai più inquietanti interrogativi dell’uomo sul suo vivere e sul suo morire.
Dalla trama e dallo sviluppo del racconto ricaviamo che Febe è affascinata dal discorso di Paolo che le descrive la sua conversione e  quel che è avvenuto, a seguito di ciò, nel mondo giudaico, lui fariseo e figlio di farisei importanti, cittadino romano, che cerca di persuadere i suoi correligionari che il Messia atteso è giunto per cui la Salvezza è iniziata, per poi rivolgersi ai pagani, quando comprende di  non essere accolto nel mondo giudaico.
Febe si occupa dei poveri e dei malati abbandonati, il figlio Ippolito va in Oriente e trova una comunità cristiana nel sud dell’India  dove aveva predicato l’apostolo Tommaso, secondo il vangelo apocrifo di Tommaso, partecipa alla vita della comunità cristiana di Corinto, dove compare Apollo – personaggio di grande eloquio, ma senza carità…- viene incaricata da Paolo di portare la sua lettera a Roma, sbarca dopo un viaggio in mare con il figlio ad Ostia. E qui bisogna sottolineare l’abilità dell’autrice nel descrivere, con fantasiosa rielaborazione di testimonianze storiche, la vita quotidiana nella grande città cosmopolita.
A Roma Febe incontra sull’Aventino  Aquila e Priscilla che erano stati a Corinto quando Claudio aveva espulso da Roma i giudei, impara il latino con un litterator greco, maestro di scuola,  nelle cui mani erano arrivati i libri di Aristotele. Tra di loro avviene un dialogo culturale: il maestro le dà la Metafisica del filosofo greco, mentre lei, con la sua revisione, traduce in latino la lettera ai Romani.
La lettera non è incentrata solo sul problema della giustificazione per fede, e che costituisce il cuore della teoria di Lutero, privilegiando la grazia, ma grande rilievo ha anche il binomio carne/spirito, con il monito a far spazio allo spirito mediante la padronanza di sé. Questa prescrizione è centrale in Paolo e ritorna anche in altri suoi testi, come la lettera ai Colossesi (3, 1-17) in cui unisce fornicazione, impurità, passioni… all’avarizia insaziabile che è per lui  idolatria, in quanto l’avarizia è egoista e la fornicazione  usa l’altro come cosa, come oggetto. In letteratura dovremo arrivare a Justine di Sade per capire questo: Paolo l’aveva già capito, molto prima…
Tutto il racconto è sotteso da domanda e risposta, una sorta di dialogo/confronto tra la visione del mondo greco/romana ed il nuovo messaggio.
Ad esempio, Paolo nel discorso all’Areopago loda la religiosità degli Ateniesi, condivide il loro pensiero sull’inutilità dei templi e sulla paternità universale di Dio, ma quando annuncia, traendo pretesto dall’altare al dio ignoto, il Cristo morto e risorto, beh… gli uditori se ne vanno, dicendo: «su questo ti sentiremo un’altra volta!».
Il contrasto è evidente con l’invocazione ebraica, insegnata a Febe da Paolo: Marana tha, mentre nel mondo di cui aveva esperienza «Tutti parevano condannati all’eccesso, al dover godere ad ogni costo, a non avere altra regola che il proprio piacere, senza alcun senso del limite, una dimensione individualistica con le persone schiave del corpo e delle sensazioni, senza considerazione per i figli, il loro futuro, senza un progetto».
L’uomo romano si sente signore assoluto ed arbitro del suo destino, afferma il figlio di Febe, Ippolito, ma si sente anche molto solo, impotente di fronte al mistero del nascere, del vivere e del morire.
La metanoia, proposta da Paolo, si oppone allo ‘spirito del tempo’che pone al centro di tutto il proprio io.
L’affresco su Roma nel romanzo ce la fa avvicinare alla New York di oggi. Una città, allora di un milione di abitanti, esentati da servizio militare e tasse, con 200.000 persone in ozio, 80 giorni festivi, 50.000 ebrei, con frotte di schiavi, possibilità di depredare le colonie, assistenza diffusa fino alle columnae lactariae e cioè le balie ‘statali’ ed i bambini abbandonati. Intanto la religione tradizionale cadeva in desuetudine. Nessuno recitava più le preghiere redatte secondo lo stile freddo dei contratti in un latino ormai per molti incomprensibile.
Mentre nelle riunioni dei primi cristiani all’Aventino emerge che Cristo si oppone al culto esteriore, molto lontano da chi vede un serpente e lo considera cosa buona per sé, oppure reputa che i sogni del mattino siano veritieri. Anche la filosofia a Roma era da tempo in decadenza. Il Senato l’aveva interdetta  nel 161 a.C ed era tornata solo nel 70 a.C. con Lucullo che aveva portato a Roma Teofrasto, conclusa la terza guerra mitridatica.
Lido aveva trovato i libri di Aristotele e,in particolare, si interessava a quelli sulla Metafisica ( che si chiama così perché i libri non avevano nome e cioè venivano dopo quelli della Fisica…), la scienza dei principi primi, dell’Essere in quanto Essere.
Qui l’autrice opera qualcosa di comparabile a quello che fa Dante nella Commedia, quando, dopo aver letto san Tommaso, cambia il Paradiso rendendolo tutto sotteso di tomismo.
Aristotele afferma che tutti gli uomini per natura aspirano alla conoscenza e, aggiungo io, dice anche che la filosofia nasce dallo stupore, lo stupore delle cose. La scienza dell’Essere in quanto Essere si riferiva alla realtà tutta nel suo insieme. E qui nascevano il principio di identità o di non contraddizione, la potenza e l’atto, con l’interrogativo stringente se il processo potesse essere all’infinito. No! La risposta ultima è il Motore immobile: il Pensiero che pensa sé stesso, l’Atto puro. Il Motore immobile come l’oggetto amato che corrisponde al fine cui tendere: pur non muovendosi fa muovere l’amante, il quale ad esso tende.
«Ma allora è Dio!» si domanda Febe... Non lo è! -le risponde Aquila- Perché il Dio dei cristiani è misericordioso.
Nel tradurre la Lettera ai Romani incontra molta difficoltà quando deve tradurre la parola agapétois, amati da Dio, che proviene da agápe, amore sollecito, e poi legge: «Un Dio la cui perfezione invisibile, fin dalla creazione del mondo poteva essere contemplata con l’intelletto nelle opere da Lui compiute». Se il motore immobile è la perfezione suprema, è Somma bellezza e Sommo Bene, un principio immutabile, il Dio di Paolo ha qualcosa di più: la sollecitudine per gli uomini, è,appunto, un Dio misericordioso.
Febe constata però la convinzione diffusa nel suo tempo che,cioè, la sofferenza sia la legge stessa della vita.
Su questo non concordo ‘interamente’ perché la vita umana è piena di Cirenei e di doni imprevisti che fanno sperimentare gioia insieme al dolore. 
Sempre nei Colossesi (3-17) leggiamo: «Rivestitevi dunque, amati da Dio, di sentimenti di misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine e pazienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali».

Francesco piccolino, come si legge a La Verna, dove ricevette le Stimmate, disse: «La vostra pace sia nel fare la Sua voluntade» e questa è la pace cristiana.