Carlo Biancheri
Ci ha fatto uno strano effetto
sentire dal papa Francesco l’elogio del “sano menefreghismo” degli italiani per
sopportare il male della corruzione che imperverserebbe in
Vaticano.
L’osservazione sull'atteggiamento
italico è un “centone” tipico degli stranieri che non conoscono bene lo Stivale
e pensano che sia omogeneo, interamente classificabile con la pizza ed il
mandolino ed il “tira a campà…”. Nelle terre gianseniste (i cattolici calvinisti
per intenderci…) del Nord Italia, come Liguria e Piemonte, prima dello
spostamento di intere popolazioni dal Sud, usare un’espressione come
menefreghismo era una stranezza, giacché la vita era considerata un compito duro
che comporta di rimboccarsi le maniche ad ogni istante… Non è neppure
un’espressione molto in uso nelle Venezie (non parliamo del Friuli…) e neppure
in Lombardia, men che meno nella Bergamasca, e financo in
Emilia.
Lo sapevano bene i
massoni/carbonari che hanno unificato l’Italia quando facevano dire al loro re
caricatura: abbiamo fatto l’Italia, adesso bisogna fare gli italiani. E già gli
italiani che non sono i romani – e anche qui …tempo fa si diceva che Roma è la
seconda città siciliana dopo Palermo- e questo gli stranieri non lo capiscono
proprio: senza alcuna valutazione di merito, sarebbe come sostenere che un
parigino ed un marsigliese sono la stessa cosa.
Mussolini usava il “me ne frego”,
ma stava a significare la sua mascolinità, la sua virilità,” così ben descritta
da Gadda che ne ha analizzato il linguaggio priapeo.
Non è una gran trovata considerare
il “sano menefreghismo” come segno di saggezza, di distacco, tanto più che se il
papa è al corrente che c’è corruzione in Vaticano, essendo un sovrano assoluto,
perché non vi pone mano? Deve licenziare tutti? Perché no? Vada a vivere a
Guidonia ed i credenti capiranno, del resto Celestino V…
Temiamo che questo linguaggio
lasco ed approssimativo tradisca in realtà un certo provincialismo sudamericano
che porta a considerare, per esempio, tra gli intellettuali cattolici la
teologia tedesca come “superiore”; negli anni in cui furoreggiava la teologia
della liberazione ricordo intellettuali famosissimi parlare con molto rispetto
di quel che si elaborava in centro Europa, quasi che nel Nuovo mondo non si
disponesse dell’acribia necessaria ad affrontare certi temi ... Noi
leggiamo i testi e gli autori e decidiamo con la nostra testa, senza alcun
timore reverenziale e senza troppo nasconderci dietro l’argomento di “autorità”
medievale. La teologia della scuola di Tubinga ha messo Hegel al posto di
Aristotele, ma, finalmente, col relativismo ed il soggettivismo imperante che
porta al nulla, abbiamo capito che l’idealismo tedesco ha fatto il suo tempo. I
cattolici di professione no. E già, perché, se non lo sapevate, ci sono certi laici, magari
sociologi o laureati in legge che insegnano liturgia negli Atenei pontifici
che si
avventurano in campi teologici ad un livello tra il divulgativo ed il
giornalistico, propalando le ultime idee correnti come verità. Se noi leggiamo i
Padri o testi come la Regola di San Benedetto, non troviamo mai qualcuno che
scriva per difendere le proprie opinioni: si affrontano i problemi con umiltà,
con argomenti non per prevalere sulle idee altrui, come fanno certi storici
della religione/giornalisti che affrontano problemi teologici quasi si trattasse
di propaganda. Un esempio: l’adulterio è intrinsece malum? Non diciamo
sciocchezze e la soggettività dove va a finire? Ma… lo dice Aristotele che
cristiano non era… nell’Etica a Nicomaco, suo figlio, tanti secoli prima di
Cristo… Su quali argomenti? Perché fermarsi alla prima osteria e all’impeto
passionale e non approfondire? Si capisce che i gesuiti siano una Compagnia
guerresca, ma allora si comprende anche perché il secondo Apostolo di Roma, San
Filippo Neri, non ci sia mai voluto entrare.