Rosa Elisa Giangoia
Innanzitutto bisogna dire che, dopo
decenni di politica del risparmio che ha danneggiato la scuola pubblica in
Italia, questa riforma, fortemente voluta dal Presidente del Consiglio, che già
nel suo primo discorso in Senato aveva affermato di pensare che «non ci sia
politica alcuna che non parta dalla centralità della scuola», stanzia per la
scuola 3 miliardi di euro e assume 102.700 insegnanti precari. Questo dato
positivo, però, non è altro che la necessaria normalizzazione di una
incancrenita situazione di negligenze e ingiustizie che aveva fatto sì che
laureati che avevano compiuto tutto il percorso professionalmente formativo, di
volta in volta in vigore, per diventare insegnanti fossero utilizzati dal
governo in condizione di precariato. La situazione negli anni era diventata
estremamente confusa, con concorsi statali bloccati, insegnanti “stabili” con
contratti da precari, decine di migliaia di contratti di supplenza annuale: di
conseguenza è risultato difficile stabilire le priorità e le garanzie dei
diritti, per cui sono esplose, all’interno della categoria dei docenti, tensioni
e conflitti.
Nello stesso tempo riemergevano situazioni
difficili da tempo presenti nella scuola: condizioni strutturali ed edilizie a
rischio per molti edifici scolastici, la mai realmente attuata autonomia
scolastica, la necessità di ammodernare le strutture e la didattica, tutte in
gran parte determinate dai tagli di circa 8 miliardi di euro e dalla
soppressione di circa 120.00 lavoratori della riforma del ministro
Gelmini.
Quando si inizia a delineare questa attuale
riforma (settembre 2014) il Presidente del Consiglio avvia un dialogo diretto
con la cittadinanza, attraverso forme di democrazia partecipata che (un po’
demagogicamente) vorrebbero coinvolgere docenti famiglie e studenti, tramite un
questionario on-line e position-papers. I risultati sono
senz'altro deludenti: le risposte al questionario sono solo
207.000!
Ma nell'itinerario di elaborazione della
riforma il momento di svolta avviene il 26 novembre 2014, quando la Corte
Europea del Lussemburgo obbliga il governo italiano a regolarizzare i contratti
precari degli insegnanti prorogati dopo 36 mesi di lavoro. Da quel momento si
avvia, attraverso gli opportuni atti legislativi, il piano di stanziamento dei 3
miliardi di investimento per le procedure di assunzione. Nel disegno di Renzi
avviene però un deciso cambiamento: dalla riforma scompare l’attenzione ai
problemi educativi e prevale l’elaborazione tecnico-politica di un piano teso
più a risolvere le situazioni dei docenti che a garantire una nuova formazione
agli studenti.
A questo punto l’iter della riforma procede
veloce: il 24 giugno il Governo blinda il testo e pone la fiducia al Senato e il
9 luglio la riforma è approvata alla Camera. Di fatto la prospettiva iniziale di
elaborazione condivisa della riforma è stata completamente capovolta: si è
arrivati all'approvazione di un testo blindato al quale non è stato possibile
porre emendamenti o discuterlo in Aula!
Esaminiamo le innovazioni
salienti
Innanzitutto viene fortemente modificata
la figura del dirigente scolastico, a cui è data la facoltà di scegliere i
docenti rendendo pubblici i criteri seguiti, non solo per coprire l’organico, ma
anche senza una loro classe, da utilizzare per supplenze e nel monte ore del 30%
per potenziare alcune materie caratterizzanti l’offerta formativa. Se applicato
con assoluta correttezza e trasparenza questo criterio di avere gli insegnanti
migliori per raggiungere gli obiettivi prefissati dal P.O.F. potrebbe essere
ottimale, ma c’è da fidarsi dell’assoluta correttezza e trasparenza? Saranno i
fatti a dircelo.
Inoltre il dirigente scolastico avrà a
disposizione fondi per premiare i docenti che più si impegneranno e potrà
scegliere un gruppo di insegnanti “collaboratori” per far funzionare e governare
la scuola, cosa che, per la verità, già avveniva con le “funzioni obiettivo”. Ma
resta aperto un problema: quello di individuare chi controllerà i dirigenti
scolastici.
Altre presunte innovazioni sono in realtà
un ritorno al passato.
Si dice infatti che entro il 1° dicembre
dell’anno corrente verrà bandito un concorso per insegnanti a cui potranno
accedere i precari non assunti, di cui entreranno in ruolo il 60%, mentre gli
altri formeranno una specie di fascia di esodati che dovrebbero iniziare nuovi
percorsi di formazione per partecipare a futuri concorsi, fino a quando non
risulteranno vincitori. In questo modo si ripropone la situazione anteriore al
1974, quando si entrava in ruolo solo per vincita di concorso. Ma in quegli anni
ci fu un enorme aumento della popolazione scolastica, specie alle superiori, che
costrinse all'utilizzo generalizzato di precari (non selezionati o reduci da diversi insuccessi nei concorsi)
che dopo qualche anno vennero indiscriminatamente immessi in ruolo ope legis con un notevole abbassamento
del livello culturale e professionale dei docenti che fu l’inizio del decadere
della scuola e del crollo di considerazione da parte dell’opinione pubblica nei
confronti della categoria. Anche nel caso attuale sarà la realtà dei fatti a
determinare l’evolversi della situazione, in quanto non è prevedibile il
fabbisogno di docenti nel prossimo decennio, date le variabili demografiche
dovute a natalità e immigrazione.
Anche la card di 500 euro l’anno che verrà data
ai docenti da spendere per “consumi culturali” ricalca i rimborsi e le
detrazioni fiscali che si erano varate qualche decennio fa per gli stessi fini,
ma che hanno avuto vita e attuazione brevissima per la mancanza di fondi
rapidamente sopravvenuta. Speriamo che questa volta la storia non si ripeta…
Allo stesso modo, dopo i corsi di aggiornamento semi-vacanze-premio degli anni
’60, negli anni ’70 e ’80 grande sviluppo ha avuto la pratica dei corsi di
aggiornamento per insegnanti che ha tenuto in piedi associazioni culturali e
professionali a cui erano demandati e che gli insegnanti frequentavano, con più
o meno profitto, ma senza alcuna verifica, con il miraggio di scatti di
carriera. Poi tutto si è dissolto… e non se n’è più parlato, come se la
necessità di aggiornare gli insegnanti non fosse costante. Ora la Buona Scuola
prevede una “formazione comunitaria” in servizio per i docenti a cui vengono
destinati 40 milioni di euro da ripartire tra tutte le scuole. Vedremo chi li
organizzerà, come verranno gestiti e soprattutto se questa volta la positività
dell’aggiornamento verrà in qualche modo verificata.
Centrale vorrebbe essere nella Buona Scuola
il rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro, in quanto prevede 400 ore di stage
in aziende o enti pubblici per gli studenti degli istituti tecnici o
professionali, mentre per i liceali, 200 facoltative. Gli stage, con tempi più ridotti e organizzati in
modo piuttosto dilettantesco, li abbiamo già sperimentati, con scarsi risultati
soprattutto per la futura occupazione dei giovani che continua ad essere al 44%.
Speriamo che ora tutto venga organizzato in modo ottimale, utile per trovare
lavoro dopo il diploma, nonostante i
soli 100 milioni di euro stanziati.
Resta comunque irrisolto il problema che i
ragazzi italiani escono a 19 anni, mentre in altri paesi europei e non la soglia
è di 18.
Di nuovo la riforma prevede la detrazione
fino a 400 euro per chi iscrive i propri figli in scuole paritarie, che in
genere hanno rette piuttosto alte, per cui la detrazione copre una minima parte,
mentre stanzia per il funzionamento delle scuola da 111 a 200 milioni di euro,
che comunque non eviteranno i contributi (più o meno) volontari delle famiglie
al momento dell’iscrizione ad una scuola pubblica.
In questa riforma manca però qualcosa di
molto importante. Mancano completamente la dimensione didattica, pedagogica e
antropologica, nonché l’attenzione sociale. Innanzitutto non si considerano i
problemi del disagio, degli alunni e degli studenti poveri, non si considera
che, mentre nei paesi del nord Europa l’istruzione è completamente gratuita, in
Italia ogni studente costa mediamente 700 euro all'anno alla famiglia, che
sovente non è in grado di sostenerlo. Inoltre non si affronta in modo globale il
problema dell’insuccesso scolastico (17%) e dell’abbandono che nel nostro paese
si aggira intorno al 20%, ponendoci tra i paesi fanalini di coda dell’Ocse.
Queste dinamiche si correlano anche alla condizione stipendiale degli
insegnanti, se pensiamo ai premi che possono dare i dirigenti scolastici in
netto contrasto con il programma di Obama (Teaching for America) che assegna
stipendi più alti ai docenti che scelgono scuole difficili, socialmente
disagiate e periferiche, in somiglianza con quanto era stato fatto in Italia
alcuni decenni fa riguardo ai magistrati, categoria privilegiata dallo Stato a
tutto danno dei docenti.
Completamente eluso rimane l’interrogativo
di fondo su quali persone e soprattutto quali cittadini vogliamo che la scuola
formi e attraverso quali percorsi culturali, cosa che era ben chiara a Giovanni
Gentile nel delineare il liceo classico e la sfaccettatura degli istituti
tecnici. A questa domanda inoltre dovrebbe precedere l’interrogarsi sul fatto
che nel nostro paese l’analfabetismo è ancora intorno al 3,5 %, mentre la
percentuale dei laureati sul totale degli occupati è un sesto di quella degli
USA e un terzo di quella della Francia, senza contare il fatto che la maggior
parte dei nostri migliori laureati trovano lavoro all’estero, per cui noi li
prepariamo per gli altri…
Nella riforma manca uno specifico
insegnamento sulla cittadinanza, inoltre le forme di partecipazione alla
gestione della scuola non sono incentivate e non si promuove l’educazione ad un
loro corretto uso. Manca, in definitiva, l’educazione ai valori del bene comune,
ai valori del vero, del bene e del bello.
A questo riguardo occorrerebbe affrontare la
questione in profondità, con saggezza e competenza.