Rosa Elisa Giangoia
Nella sua
diffusione ad gentes il Cristianesimo delle origini, rivolgendosi ad un
mondo che aveva elaborato un ampio patrimonio culturale, si è confrontato con
esso in modo molto accorto, da un lato accogliendo quanto poteva essere funzionale
ad un’accettazione del messaggio evangelico, in primis la metafisica, ma
anche ponendosi come la risposta sicura e convincente alla diffusa aspettativa
di vita eterna con certa ricompensa, aspirazione molto sentita dalla
mentalità del tempo, a cui né i culti misterici, né le varie soteriologie di
derivazione filosofica sapevano dare soddisfazione.
C’erano,
però, nella visione culturale del tempo altre concezioni, condivise e radicate,
che contrastavano con il messaggio evangelico e tra queste di particolare
rilievo erano le diseguaglianze tra gli uomini con l’inferiorità della donna e
l’accettazione della schiavitù, oltre alla mentalità bellicista. Il nucleo del
superamento della condizione di schiavitù nella nuova visione di fraternità tra
tutti gli uomini è nella Lettera a Filemone (16) di San Paolo, in cui
chiede all’amico di accogliere nuovamente Onesimo, non più come schiavo ma come
fratello nel Signore.
Sostenendo
l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini, in quanto tutti figli di Dio, il
Cristianesimo ha portato da culturalmente elitaria a visione di massa la
critica nei confronti della schiavitù per cui quello che era un orientamento
filosofico dello stoicismo romano, ben rappresentato da Seneca (ad Luc.,
V, 47), è diventato un principio condiviso e rivendicato che con la sua
attuazione, pur non risolvendo le disparità socio-economiche, ha elevato in
dignità gli uomini tutti, come ha conferito un livello di parità alla donna,
seppure con residue limitazioni, attestate nelle lettere di San Paolo (1 Cor
11, 7-8; 14, 34-35; Col 3, 18; I Tim 2,12; Tit 2,5; Ef 5,22).
Per quanto
riguarda il superiore valore della pace, la questione è stata resa più
complicata per la svolta costantiniana con la divisione del lavoro tra
clero e laicato, che trova terreno fertile con il diffondersi progressivo del
cristianesimo nell’area germanica e per la successiva contrapposizione con l’Islam
occupante la Terra Santa. Infatti nei primi tre secoli dell’Impero al
militarismo dominante nella mentalità Romana si contrappone il rifiuto della
violenza in generale, specie della violenza istituzionalizzata, che si
manifesta attraverso le guerre, da parte dei cristiani che arrivano in diversi
casi anche a subire il martirio per la loro obiezione di coscienza al servizio
militare e in molti altri si fanno obiettori di fronte a singoli ordini
ritenuti ingiusti.
Attraverso
un cammino di riflessione in ambito patristico, che trovò piena
teorizzazione nella Demonstratio evangelica di Eusebio, si venne poi affermando
la divisione tra preti e monaci, esentati da ogni obbligo militare, e laici,
chiamati agli affari e anche, se necessario, alla guerra, attività progressivamente
valorizzata dalle classi elevate germaniche anche per ragioni dinastiche. E la
non violenza venne recuperata solo dopo molti secoli come valore…
In parallelo
va sottolineato il fatto che il Cristianesimo abbia opposto fin dalle origini
un deciso rifiuto di quella violenza che impedisce la libera espressione di un
proprio convincimento, in quanto la libertà di coscienza non è un privilegio di
pochi intellettuali, ma un diritto fondamentale di ogni persona, anche di
quelle socialmente e culturalmente più sprovvedute.
Queste sono
le linee guida che sono prevalse e che ancora oggi devono servire
d’orientamento nei processi d’inculturazione del Cristianesimo in nuove aree
territoriali.
Il
Cristianesimo ha una scala di valori che non possono essere messi da parte, per
cui il suo inculturarsi non può essere indiscriminato: i discrimina vanno
individuati soprattutto per esercitare, quando sia necessario, quell’azione di
ribaltamento nei loro confronti, come appunto è avvenuto in certi casi
(schiavitù, donne) nei confronti del mondo greco-romano. Di conseguenza, se
facciamo nostro il fondamento che tutti gli uomini sono liberi, che tutti sono
uguali, che vale di più la vita che la non vita (principi basilari anche nella
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) come possiamo inculturare il
Cristianesimo in quelle aree dell’India dove persiste la mentalità che non sia
reato uccidere gli appartenenti alla casta degli intoccabili senza operare un
ribaltamento di valori? O dove permanga l’idea dell’inferiorità della donna e
quindi del diritto di qualunque sopruso, abuso e violenza nei suoi confronti? O
in Cina dove Confucio insegna che la morale va rispettata principalmente all’interno
della famiglia …, in una visione di scarsa soteriologia trascendente? Per non
parlare di concezioni molto radicate nella visione della famiglia così lontane
dal modello cristiano, come la poligamia nel mondo musulmano o la poliandria in
Oceania… E peggio ancora la necessità di sopprimere chi professa una diversa
fede, presente in una certa interpretazione dell’Islam, nei confronti della
quale anche noi giustifichiamo la guerra…, come è stato per secoli con la
colonizzazione.
L’elemento
base della differenziazione è la visione del mondo inclusiva di una corretta
antropologia. Per capire meglio questo concetto possiamo rivedere quanto diceva
Jacques Maritain in Il contadino
della Garonna (ma il concetto era già in Umanesimo integrale e ne I
gradi del sapere ), secondo cui, per una corretta teologia occorre una
filosofia adeguata, riprendendo il concetto medievale di philosophia ancilla
theologiae. La filosofia, infatti, secondo il filosofo francese, è come il
missile che mette in orbita la navicella spaziale. Se la filosofia non è
corretta, la teologia – navicella - non va in orbita… Finché si è usata una
filosofia funzionale, cioè l’aristotelismo, tutto è andato bene, quando invece
ci si è serviti di altre filosofie per elaborare una teologia cristiana, le
cose sono andate diversamente… Sintomatica al riguardo è l’intervista rilasciata
dal venezuelano generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa di recente su
L’Espresso. Secondo lui anche le parole di Cristo nel Vangelo a riguardo del
libello del ripudio vanno reinterpretate in quanto recepite da uomini… Ma con
quale canone ‘ermeneutico’? Forse l’inopportuna idea ottocentesca di matrice
tedesca del progresso della Storia? Come interpreteremo, allora, San Paolo che
sostiene che l’impudicizia è idolatria, perché è totalizzare il corpo
come valore, il piacere come sufficiente a sé stesso (I Cor 6, 12-20; I Ts 4,
3-7; Gal 5, 19-21; Col 3, 5-6; Ef 5, 3-5), con precisa associazione
all’avarizia: perché mai? Perché l’avaro trattiene le cose per la sua
sicurezza, per il suo egoismo, e l’impudicizia significa trasformare l’altro in
cosa per il proprio piacere. Anche Aristotele nell’Etica Nicomachea dice
la stessa cosa che verrà ripresa da San Tommaso nella Summa, I, Secundae.
Basta leggere Sade o Edmund White o Proust per trovare conferma del fatto che
l’impudicizia è idolatria,in quanto totalizzante. Non assume consistenza
proprio con questi argomenti capziosi il relativismo?