Carlo Biancheri
Questa settimana per i tipi de Il Mulino esce nelle librerie
la seconda edizione dell’opera di un filosofo, Francesco Calvo, scomparso
prematuramente nel 2001, intitolata Cercare l’uomo –
Socrate, Platone, Aristotele.
Paul Ricoeur ha scritto l’introduzione riconoscendone
l’originalità e la profondità del pensiero e la perfetta conoscenza della
filosofia antica, moderna e contemporanea. Calvo veniva da una formazione
kantiana, come allievo di Emilio Garroni, ma ha avvertito che una filosofia
ridotta ad epistemologia o a gioco linguistico non conduceva da nessuna parte;
da qui l’approfondimento dei classici greci e del pensiero medievale che si
presentano come una singolare risposta ad un’esigenza di senso e di ‘fondamento’
che viene avanzata nel nostro tempo e che va ben al di là della ricerca
individualistica post-romantica dei filosofi del Novecento. Essere invece di
apparire, cercare un fondamento che non sia semplicemente un prodotto storico
transeunte: cerco l’uomo, la sua verità, questo è l’obiettivo dell’opera di
Francesco Calvo.
Recensione
Rosa Elisa Giangoia
Come afferma Wittgenstein nel Tractatus, in filosofia o si è realisti
o si è idealisti. Oggi sembra fondamentale riprendere il discorso sul realismo,
non tanto di tipo scientifico, né pragmatico, né tanto meno ingenuo, ma quello
classico di realismo metafisico, secondo cui esiste una realtà al di fuori del
soggetto.
A questo scopo è senz'altro determinante
l’opera Cercare l’uomo. Socrate Platone Aristotele Il Mulino, Bologna
2014) di Francesco Calvo che riprende il discorso a partire dai tre grandi
filosofi classici, fondamentali per il pensiero occidentale, non alla ricerca
di approfondimenti e nuove interpretazioni, ma con l’impegno intellettuale di
un filosofo che, attraverso un attento lavoro sui loro testi, crea un sistema
di pensiero da proporre all'uomo di oggi per aiutarlo a comprendere “il
che cos’è delle cose”.
L’originalità di quest’opera sta innanzitutto nel proporre un’attenta
interpretazione di Socrate visto come il seme intellettuale del pensiero fondato
sull'ontologia, da cui trarranno spunto Platone ed Aristotele, pur in modi
e con esiti diversi. Infatti il «conosci te stesso» di Socrate viene spogliato della
mera valenza etica per conferirgli un connotato metafisico, onde dar vita alla
triade coscienza di sé – ignoranza – dialogo, nella ricerca del «bene per
l’uomo», fino alla consapevolezza dell’ignoranza, come ignoranza del
trascendentale, individuato come «ciò che distoglie e solleva ogni conoscenza
particolare dalla sua centralità esclusiva».
Tutto questo è possibile proprio perché
Francesco Calvo recupera e pone a fondamento del suo pensiero il realismo in
senso classico per cui il concetto di natura viene letto nel senso superiore di
“principio” ed egli non teme di parlare di sostanza. In questa prospettiva
l’indagare sull'uomo, su cosa debba fare e fino a quale termine, viene portato
avanti nella consapevolezza di qualcosa di oggettivo che trascende e fonda la
sfera della pura personalità individuale.
Per quanto riguarda l’etica, è opportuno
che venga sfatata la leggenda che fondatori ne siano stati gli Stoici ed in
particolare Seneca che, immettendola nel mondo romano, l’ha consegnata alla
tradizione, in quanto «Tutte le dottrine etiche e politiche di Aristotele sono,
da un punto di vista filosofico, altrettante esplicazioni fenomenologiche
dell’essere dell’uomo nel suo aver-da-essere». In Aristotele, infatti,
l’atto legato all'aver-da-essere centra tutto sull'attuazione, condizione
di disvelamento dell’essenza umana e delle sue potenzialità.
Analizzando il pensiero di Platone, pur
nella consapevolezza del suo intento «di filosofare sub specie Socratis»,
Francesco Calvo prende il suo dualismo antropologico e la conseguente
differenziazione tra il corpo e l’anima (nella sfaccettatura di noùs, pnéuma
psyché) come punto d’indagine sulle sue aporie per arrivare alla
giustificazione della morte con l’innalzamento dell’immortalità (Fedone),
che diventa legame intrinseco tra l’anima e l’oggetto assoluto. Per l’anima
l’imperativo di liberarsi dal corpo viene corroborato dall'esercizio dialettico
nella sua totalità, esperienza in cui essa percepisce la solitudine nel
colloquio con se stessa in un monismo al di sopra del dualismo, accompagnato
dalla dialettica dell'éros.
In questo modo il «conosci te stesso» socratico, quale unione del sé e del bene
oggettivo, si arricchisce dell’esperienza del Bello, capace di unire il momento
“esistenziale” e quello “oggettivo”, grazie al potere di attrazione che sa
esercitare nel cuore del desiderio.
Secondo Calvo, però, Platone non riesce ad uscire dal dualismo e in questo
senso è scisso, in quanto il suo uomo ha la testa in cielo e i piedi
sulla terra. Questo problema del dualismo viene risolto da Calvo con la
psicologia di Aristotele che, contrariamente a Platone, rifiuta il
dualismo superandolo nell'attualità: l’essenza, per così dire, si svela in
atto, anche se atto e potenza sono co-principi metafisici, in quanto la forma
si può definire come la materia in atto e la materia come la forma in potenza:
è la teoria dell'ilemorfismo che unisce forma e sostanza nell'unità dell’ente,
facendo dell’anima la forma del corpo.
Anche
se la questione del bene per l’uomo diventa il legame tra Socrate, Platone e
Aristotele, per Calvo la questione della «vita buona» e dell’«agire bene» - in
base ad una corretta lettura di Aristotele - non si deve ridurre ad una
semplice questione morale. Infatti in Aristotele non è possibile circoscrivere
il compito dell’uomo senza aver preliminarmente affrontato la difficile
questione dell’ «essere-uomo» in quanto tale. Soprattutto non si può trattare
dell’uomo come essere-politico, e neppure del suo statuto come «animale
razionale», senza essersi prima confrontati con la problematica della sostanza.
A questo punto l’analisi di Francesco Calvo diventa complessa in una serrata
elaborazione concettuale fino all'individuazione della sostanza dell’uomo in
quell'essere che è «un essere che ha da essere», cioè del vivere nella tensione
verso una “forma” che è la realizzazione dell’uomo in quanto tale. Di qui l’etica,
che si sostanzia di un’antropologia filosofica e che si prefigge un preciso
obiettivo, per cui si differenzia nettamente dalla morale kantiana di tipo
prettamente formale, tesa ad illustrare la forma della morale, ma non il suo
contenuto che si esplicita in norme morali. Per questo, secondo l’elaborazione
di Calvo, l’aver-da-essere della sostanza uomo è il suo compito che si realizza
nella «tensione appropriata» della potenza in cui l’ontologia si lega all'etica
e alla psicologia. In queste relazioni entra in gioco la dialettica del
“proprio” e del “comune” che si esprime specificatamente nell’amicizia, in cui
il bene coordina l’esclusività del “proprio” e la condivisione del “comune”
nella coincidenza dell’amicizia per se stessi e dell’amicizia per l’altro, in
cui si realizza quel “bene” fondamentale della gioia insita nel vivere,
presente già in Socrate.
Secondo Aristotele, l’amicizia tratteggia
una specie di modello in scala ridotta e ridimensionata del legame politico,
nel quale l’“autarchia” dell’individuo diventa modello emblematico della
possibilità di realizzazione dello stato, in quanto chi realizza il bene
individuale realizza nello stesso tempo quello collettivo. Ed allora il cerchio
si chiuderà nella convinzione che una buona fenomenologia dell’amicizia
richiede una buona conoscenza del fondamento primo dell’uomo in base al quale
si costruisce tutto il suo modo di essere. In definitiva la pienezza umana si
svela nella sua attualità e in questo il Kant della Critica del giudizio non dista molto.
Queste le linee essenziali di questo
saggio, che viene ripubblicato dopo alcuni decenni dalla prima edizione,
proprio per la sua attualità dovuta alla capacità di rispondere a tante domande
rimaste ancor oggi insolute.
Questa è l’originalità del libro, in contrapposizione a molte delle più recenti
e accreditate posizioni filosofiche contemporanee, così diffuse anche in alcune
correnti cristiane, che tratteggiano un Tommaso d’Aquino quasi platonico e
idealista, accomunate dal muoversi sulla coscienza di sé, dell’io, in un
circuito in ultima analisi cartesiano, incapaci di comprendere che l’io si
fonda su un sub-strato ontologico e che non crea il reale, per cui, per la
piena comprensione e la completa realizzazione dell’uomo, occorre un upokéimenon,
il sostrato, la sostanza che fonda l'essere uomo contro l’idealismo della fenomenologia
che centra tutto sul soggetto e sulla sua ragione soggettiva.