Rosa Elisa Giangoia
L’articolo di fondo di Eugenio
Scalfari pubblicato su “la Repubblica” di domenica 13 aprile prendeva spunto da
un testo poetico, Il brindisi di
Girella, come monito ed esempio per proseguire con considerazioni
sull’attuale momento politico. Oggi potremmo considerare piuttosto inconsueto
mettere in rapporto la poesia con la politica, ma così non è stato in passato,
come dimostra questo testi di Giuseppe Giusti che Scalfari ha certamente fatto
riemergere dalle sue memorie degli anni di scuola, quando questo poeta aveva un
posto di rilievo nel canone letterario, per essere poi scalzato da scrittori più
recenti in base a valutazioni la cui
opportunità può senz’altro essere messa in discussione.
Scalfari comunque ci riporta a
considerare la stretta connessione che storicamente è esistita in certi periodi
tra la produzione letteraria e la situazione politica, connessione che in altri
momenti è venuta allentandosi fino a scomparire, il che ci induce a riflettere
su quali delle due situazioni siano state più positive. Basta scorrere
rapidamente i secoli della produzione letteraria italiana. Quando alla poesia
d’amore d’imitazione provenzale dei Siciliani e dei Toscani si è affiancata la
voce di poeti dalla robusta tempra civile, c’è stata la riscossa dei comuni
italiani contro il dominio degli imperatori germanici ed anche la fede cristiana
ha trovato la sua voce di autenticità in poeti come Francesco d’Assisi e
Jacopone da Todi, in momenti difficili per la Chiesa. E poi Dante, persino
troppo sicuro ed autoritario nel distinguere il bene dal male e nel giudicare
singoli personaggi, in una continua revisione del suo pensiero politico che lo
fa giungere ad una profetica visione universalistica. Nei secoli seguenti ci
sarà un progressivo distacco della letteratura dalla realtà civile, politica e
sociale del nostro paese e solo con la fine del Settecento ci sarà quel ritorno
di coscienza civile nella letteratura che maturerà e fiorirà nell’esperienza
ottocentesca del Risorgimento, in cui il vero lievito all’elaborazione del
pensiero avverrà nell’ambito letterario con poesie che saranno veri e propri
manifesti politici (dai Cori delle tragedie del Manzoni, all’Inno di Mameli,
alla vena satirica appunto del Giusti) e con la centralità di un romanzo come I Promessi Sposi, costruito con tale
abilità allusiva da diventare tramite di idee morali, civili e politiche per
chiunque leggesse.
Esauritasi l’onda propulsiva del
Risorgimento, la letteratura in Italia ripiega sul sentimentalismo e nemmeno il
contatto con la realtà del Verga e del Capuana sa riportarla verso una coscienza
civile politicamente produttiva. A prevalere è la linea retorica, sostenitrice
della politica nelle forme manierate di D’Annunzio e del Pascoli meno autentico,
che dimostrano tutta la loro fragilità letteraria nel momento in cui non sono
capaci di proporre novità, ma vanno a traino di una linea politica altrove
elaborata a cui forniscono acriticamente il loro sostegno. Situazione che
continua negli anni del Fascismo con i letterati “ufficiali” votati al
servilismo, come i Futuristi e altri, chiusi nelle torri d’avorio a elaborare
elzeviri e prose d’arte, mentre la fucina politica matura nell’opposizione di
autori come Vittorini e Pavese per esplodere poi nella Resistenza, di cui la
letteratura più che motore si fa memoria per proseguire nell’onda lunga della
letteratura impegnata (sul modello francese di Sartre) con il Neorealismo, in
cui, però, il troppo marcato retroterra ideologico diventa il limite che la
esaurisce in quanto letteratura di maniera di un regime, senza potere politico,
ma di fatto dominante nel campo della cultura tanto da imporre determinati
autori (in primis Brecht). La prevalenza degli intellettuali era fatta da reduci
dallo stalinismo, tutti influenzati dalle “magnifiche sorti progressive” della
Storia, sempre all’interno della dialettica dell’individuale/collettivo. Fece
seguito la “scoperta” dell’alienazione, ma sempre in questo ambito che
analizzava l’impatto dell’alienazione borghese, ben documentata dal cinema di
Antonioni.
Poi, a partire dagli anni Settanta, la
letteratura, ed in particolare la poesia, e la politica si separano per un
ripiegamento prevalentemente intimistico della poesia che oltretutto si esprime
in un linguaggio scarsamente comunicativo per l’eccessivo elaborazione formale
tutta autoreferenziale sull’autore. Pochi, anche se di successo, i romanzi a
carattere politico, da quelli di Leonardo Sciascia a Gomorra di Roberto Saviano, sommersi dal
profluvio di testi e di film d’inchiesta e di denuncia, limite che ha
caratterizzato anche l’esperienza della Neoavanguardia. Il romanzo privilegia linee sfuggenti dalla
realtà politica e sociale, ripiegando sul privato, ricostruendo il passato senza
capacità di far emergere valori universali (come hanno saputo fare il Manzoni e
pochi altri) o sfugge completamente dalla realtà con i generi fantasy.
Per questo tra i
tanti aspetti negativi del nostro tempo va aggiunto anche questo, la mancanza di
intelligenze creatrici che sappiano esprimere con il linguaggio, indubbiamente
più ricco, efficace e convincente, della parola letteraria idee capaci di un
apporto costruttivo e positivo per la nostra società.
Il fatto che non
ci sia oggi, se non nelle letterature dei cosiddetti paesi ‘esotici’ dove la
speranza costituisce un’epica, una produzione che si misuri con la politica è
probabilmente dovuto alla crisi dell’umano. L’uomo sembra privo di speranza in
un futuro e non solo per ragioni economiche, ma per il fatto che l’identità
stessa dell’uomo è messa in gioco. Si vive l’istante e non una storia. La
dimostrazione più vistosa si ha nel cinema dove Il sesso si traduce in una
ricerca spasmodica dell’anima, dell’alterità, della durata… che diventa in
stordimento perché la carne è impermeabile, senza speranza: è come Mida. Non
cercava forse Sade in Justine di ridurre la vittima in consenziente
come quella della macchina di Kafka, nei Racconti? Kierkegaard dice che
Nerone per sentirsi vivo doveva assistere all’omicidio di neonati: questo era un
sensazione forte, perché non aveva l’equilibrio all’interno di sé. Manca la
speranza, appunto…
Per far andare la letteratura da qualche parte bisognerebbe avere delle ben precise idee che portassero da qualche parte, impegnandosi a distinguere il bene dal male nella vita di ognuno e nella società in cui viviamo, cercando di far emergere e far comprendere sempre il bene, mentre oggi la letteratura vuole essere “specchio” della nostra società e così per attirare la gente a leggere parla delle cose peggiori (sesso, droga, alcool e sballi vari, come velocità, esperienze estreme e cose così), per cui poi si crea l’effetto imitazione e tutto va sempre peggio.
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