Carlo Biancheri e Rosa Elisa Giangoia
Se
l’Alighieri avesse avuto anche una sola esperienza di ingresso e permanenza in
un qualunque Pronto Soccorso di un attuale ospedale italiano, molto
probabilmente ne avrebbe fatto l’ambiente di un suo luogo di punizione
infernale, magari per una delle Malebolge. Ai suoi tempi, però, dobbiamo
ricordarci che era ancor peggio, dato che non c’era quasi nessuna forma di assistenza,
se non affidata all’occasionale pietosa carità cristiana. Occorre, quindi, dar
atto dell’enorme progresso che la medicina e l’assistenza sanitaria hanno
fatto, soprattutto da quando, in base all’evangelica parabola del Buon
Samaritano, sono stati superati il rifiuto e l’emarginazione del malato, tipici
del mondo classico, ben rappresentati dal Filottete
di Sofocle, e si è iniziato a prendere coscienza della necessità della cura e
dell’assistenza nei confronti dei malati, dal che è nato tutto il sistema
ospedaliero, dai primi Hôtel-Dieu (straordinario quello di Beaune, in Borgogna,
della metà del XV secolo) fino all’attuale organizzazione, ormai completamente
laica.
Noi
due abbiamo avuto recentemente esperienze nei Pronto Soccorso di due diversi
ospedali, a Roma e a Genova che vogliamo raccontare, per fare poi qualche
considerazione…
Carlo
Era dicembre, ma sembrava marzo a motivo dello sconvolgimento del clima,
dopo un autunno senza piogge. Non era quel che gli anglosassoni chiamano Indian Summer ma una fresca mattina di
primavera nel cuore di Roma, vicino al mausoleo del crudele Augusto che dopo la
battaglia di Azio si fece costruire la tomba per sé, per gli eredi designati e
premorti e per la sua amata Livia che era stata portata al nuovo connubio dal suo primo
marito, sebbene incinta di Druso. Anche i figli di Giulia vennero sepolti lì,
ma non lei, perché indegna, come Nerone: si accoppiava con
tutti dopo esser stata obbligata dal padre a sposare un anziano come Agrippa e
così morì in esilio su un’isoletta, forse di inedia… Anche l’Ara pacis, sopra la Ripa Grande, magnificamente disegnata dal
Piranesi, era nei pressi o meglio quel che resta di essa, giacché il ladro
Bonaparte ha portato al Louvre il retro dell’Ara stessa, bellissimo, peraltro. Procedevo verso via Lata, al tempo di Augusto, ora via
del Corso, dove gli Ebrei erano costretti a correre svillaneggiati dal popolino
feroce, sulla mia bicicletta francese, solida e non costosa, grazie al mercato
interno dell’Unione Europea o almeno di quel che resta…
È un attimo quando vengo strattonato al braccio sinistro da una city car nera in accelerazione: la
bicicletta casca sulla destra e io volo sulla sinistra e mi trovo in mezzo alla
carreggiata per terra, con il casco che ha attutito la botta alla testa. Il
montone, che mi aveva protetto dall’inverno bulgaro a -20°, fu provvidenziale
nella caduta. Mi capitava per la prima volta, a settant’anni, di trovarmi steso
sull’asfalto: non si sta male. Subito intorno un capannello di gente premurosa,
stupefacente in un tempo di egoismo selvaggio: «Sono un medico. Ha perso
conoscenza?». «No, non mi pare…». «Non si muova» e mi slaccia il
casco. «Non si preoccupi - dice una donna- ho già chiamato l’ambulanza e i
vigili», mentre io tiravo fuori dalla tasca il telefonino e chiamavo: «Barbara,
sono per terra in via Tomacelli…». «Dove ti portano? Al Santo Spirito?». «Pino,
sono bravi? Forse ho il femore rotto…». «Come tieni il piede, in alto?». «Sì!»
«Allora non è il femore…». Di nuovo il medico: «Riesce ad alzare le gambe?». «Una
sì e una no…». E poi un altro: «Ha le chiavi della bicicletta?». «Sì! grazie,
ma spostatemi di qui, blocco il traffico…». «Non si preoccupi delle macchine… » e una voce femminile chiede: «Ma come è successo?». «Una
macchina nera mi ha investito… Sì, sì ho visto!… e mi giro: è quella!». «Quella
macchina è mia - dice una donna vestita da amazzone, con lunghi orecchini - ma
io l’ho vista volare dallo specchietto…». «No! signora, lei mi ha investito» rispondo
con voce flebile… Silenzio… Arriva l’ambulanza, modello 2000, faccio appena in
tempo a leggere le prime due lettere della city
car nera, una Smart, e vengo caricato sulla “carrozza” e comincia il
tragitto sui residui sampietrini di Roma. Avevo l’impressione di trovarmi su
uno di quei carri traballanti del West americano nell’Ottocento. Poche domande
da parte del personale, codice giallo, così si risparmia la risonanza magnetica
che non viene eseguita. Arriviamo nell’ospedale che deve accogliere i feriti in
caso di attentato da parte dell’Isis in piazza S. Pietro durante l’Anno Santo.
Subito le lastre: ambiente allegro, stanzette, corridoi, un gran freddo, in
quanto mezzo svestito con una copertaccia addosso ma, per fortuna, col montone,
perché altrimenti una polmonite era pressoché certa. Un andirivieni di
gente, non saprei dire verso dove…
Poi inizia la lunga attesa al pronto soccorso alle ore 13.45.
Uomini donne, tutti assieme appassionatamente! «Ahi, fatemi qualcosa, non
ce la faccio più!» si lamentava una… «Che c’è?» rispondeva uno che ricordava un
monatto. In effetti, i volti corrispondevano a quei personaggi del Manzoni
induriti e insensibili alle sofferenze altrui, con le sopracciglia
trattate, come fanno i giovani uomini adesso… Uno per la verità era più umano,
un po’ come quello che gridò dietro a Renzo: «Scappa, scappa, povero untorello!
Non sarai tu a soppiantare Milano». Aspetta, aspetta… non succede nulla… Viene
Barbara, viene Giovanni trafelato, possono stare pochi minuti... Non mi posso
muovere e chiedo al monatto dal volto umano acqua, gli arnesi per le necessità
corporali…; ero su una barella altissima ma, essendo abituato a cavarmela da me,
mi arrangiai da solo per le mie necessità, sebbene una gamba fosse immobile. Ciò
incuriosì l’inserviente come se avessi battuto un record sportivo, perché il
pappagallo era per terra. Aspetta, aspetta, alle 15.30 vengono i vigili con
barba lunga, mai visti sul luogo dell’incidente (mi è stato poi spiegato che
c’è una macchina sola per gli incidenti nel centro di Roma per un ambito di 20
km…) per strapparmi una firma con la quale mi notificavano che dovevo
presentarmi entro cinque giorni vicino al Circo Massimo per spiegare quel che
era successo. «Come vengo? – dico - In elicottero?». «No, non si preoccupi, lei
ha diritto ad ottenere una proroga di quaranta giorni…» mi spiegano. Ho dovuto
chiedere la proroga! Chiedo varie volte se mi visitano e scopro così che c’è un
solo ortopedico, è sabato pomeriggio…, e poi era venuta una famosa conduttrice
di programmi televisivi, la nuova aristocrazia, che era naturalmente stata
visitata subito e, infatti, i monatti in questione gridavano il suo nome che
taceremo per carità di patria…
Finalmente alle 19.20 mi portano nella sala affollata e cioè lo studio
dell’ortopedico che mi dice: «No, lei non ha nulla di rotto ma c’è qualcosa… Occorre
fare un’ecografia.» E qui inizia la discesa all’inferno. Viaggio in corridoi
del tipo rifugi bellici: i pellegrini in caso d’attentato, pensavo tra
me, se non muoiono in loco, muoiono qui… L’ecografo stava per
smontare e la macchina dell’ecografia, situata in un locale fatiscente
che sembrava un deposito del servizio dei rifiuti urbani, era malfunzionante ed
antidiluviana. «Non si vede nulla perché c’è tanto sangue», il responso.
Torniamo per i gironi infernali nell’affollata stanza del
demiurgo/ortopedico e qui succede che squilla il telefono, un lutto per il
medico che piange e tutti a fare le condoglianze, paziente incluso, cioè io. «Non
importa». Poi aggiunge: «Lei deve essere operato ma non si può fare prima di
tre giorni anche se è urgente…». «Ah! mi fà male anche la spalla». «Sì, ma le fà male solo sopra: non rileva…». Scoprirò poi che si era creata una
cisti per la caduta. Intanto, dopo le mie letture sulla mala sanità, pensavo
febbrilmente sul da farsi e, affidandomi alla Provvidenza, osai dire: «Scusi,
dottore, in passato ero stato operato dal Professor…». «Ah! Lei è un libero cittadino! Se vuol andare via faccia pure, però io
scrivo che deve esser ricoverato in altra struttura ospedaliera e non può
aspettare neppure una settimana. Del resto qui non c’era posto, vero?». «Sì! -
risponde l’infermiere prono - lei deve trovare un posto di ricovero
in regione». A quel punto io già pensavo ai monti del Viterbese o alla campagna
di Velletri con un famoso chirurgo in grado di effettuare un’operazione
rivelatasi nel prosieguo assai complessa… Uscito dalla stanza col foglio di
dimissioni in mano, sempre in barella, noto resistenza per aiutarmi a trovare
un’ambulanza… Capisco di aver provocato offesa all’amor proprio per la mia
opzione di uscire dal loro circuito ospedaliero, ma ero pure mal ridotto con
un’immobilizzazione della gamba troppo stretta. «Non gonfia?» avevo chiesto. «No,
stia tranquillo è libera…» mi avevano rassicurato e, infatti, il giorno dopo
era la zampa di un elefante….
Grazie ai buoni uffici ed alla diplomazia di Giovanni, uno di quelli che mi figuravo come monatti ci dà una
lista di croci bianche, rosse ecc… con i numeri telefonici… «Deve aspettare tre
ore…» mi dicono dal centralino della prima. «Va bene, veniamo» risponde
un’altra… e dopo quaranta minuti… arrivano. Ma l’autista era peruviano: «Que
suerte! Anche mia cognata è di Lima!» gli dico. Purtroppo non conosce Roma e
così Giovanni, proveniente da un paese dell’Est, va avanti con la sua macchina
e guida l’ambulanza… trovata fortunosamente il sabato sera nella cosiddetta
Roma Capitale. Che avesse ragione Gioberti con la federazione?
A farla breve, sono stato operato in clinica da un luminare due giorni dopo
al quadricipite, potendo sostenere la spesa e grazie all’assicurazione.
E che succede per chi non può? Torniamo al tempo di Esmeralda, agli sciancati
che si affollano attorno a Nôtre Dame?
Post scriptum: l’investitrice se n’è
tranquillamente andata senza aver lasciato le generalità…
Rosa Elisa
Qualche
giorno fa, senza sapere bene come sia capitato, mi sono ritrovata per terra in
casa mia, in cucina, con un taglio in testa da cui perdevo molto sangue. Mi
sono precipitata ad aprire la porta di casa e a chiamare Sabrina, la portinaia,
che è subito accorsa e ha cercato la mia vicina di casa, Liliana, medico e
amica carissima. La ferita era profonda per cui me l’hanno tamponata con il
ghiaccio e avvolto la testa in asciugamani in attesa che arrivasse l’ambulanza
per portarmi al Pronto Soccorso dell’Ospedale Galliera a Genova. L’attesa, per
fortuna è stata breve e il viaggio rapido, anche se l’ambulanza, come tutti i
mezzi così alti, scrolla in modo inopportuno.
Appena lasciata la sedia pieghevole su cui mi avevano trasportata gli addetti del 118, i due
infermieri, che mi avevano trasferita sulla barella, hanno iniziato a
litigare con il milite del 118 su chi dovesse alzare la barella, dopo che era
stata abbassata per farmi stendere. Mentre rimanevo con la barella sul pavimento la mia mente andava ai diavoletti
infernali del canto XXI dell’Inferno
dantesco, ovviamente per deformazione professionale!
La
controversia, per fortuna, non è durata molto, perché il milite del 118 è
andato fuori a chiamare il suo collega che era rimasto sull’ambulanza (forse
non doveva rimanere incustodita?) e così sono stata sistemata in un angolo del
Pronto Soccorso, preoccupata di dire qualcosa a Liliana che gentilmente mi
aveva accompagnata ed era rimasta nell’affollata sala d’attesa, per cui ho
contravvenuto al divieto di usare il cellulare e le ho fatto una rapida
telefonata.
Anche
se un po’ lentamente le procedure sono andate avanti con la sutura, gli esami
vari fino alla TAC: niente da dire, medici e infermieri professionali e
cortesi, quel tanto che dà l’idea che in questo ospedale, nato dalla munificenza
della Duchessa di Galliera e retto dalla Curia diocesana, perduri una
spolverata di cristiana misericordia. Poi la diagnosi di trauma cranico con
possibilità del sopraggiungere della commozione celebrale e allora … l’attesa
“in osservazione”.
Questa
è stata la fase peggiore, dalle coloriture infernali. Sistemata su una
scomodissima barella, affiancata a molte altre su cui uomini e donne, con
patologie diverse, anche gravi, stazionavano già da diversi giorni e notti. Lamenti,
grida, parole sconnesse, rumori vari, scarsissima assistenza, mancanza di
separazione tra uomini e donne, nessuna privacy, spostamenti frequenti per
sistemare i nuovi arrivati, vista aperto sull’accesso al Pronto Soccorso,
difficoltà a rimanere sulla sempre più scomoda barella, divieto dell’uso dei
cellulari, nessuna alternativa in attesa del liberarsi di un posto letto nel
reparto o delle dimissioni.
Dato
che in Italia i posti letto sono 4 ogni mille abitanti (a differenza del
Giappone dove sono 14, della Germania dove sono 8 e della Francia dove sono 7),
magari ci vuole anche un po’ di tempo prima che se ne renda disponibile uno,
come sappiamo dai frequenti fatti di cronaca anche con spostamenti da un
ospedale all'altro ed esiti conseguenti purtroppo drammatici.
Molto
disagevole, se non drammatico, è trascorrere anche una sola notte su una
barella al pronto Soccorso. Aspettavo con ansia l’esito di tutti gli esami, già
sapendo che, in caso di necessità di ricovero, avrei dovuto attendere un
posto-letto libero, magari a livello regionale (da La Spezia a Ventimiglia…),
come mi era successo qualche anno fa quando mi ero fratturata la spalla. A consolarmi
solo l’idea che qualche giorno in clinica me lo potevo permettere…
Per
fortuna, per me non ci sono state complicazioni e così ho potuto ritornare
presto a casa, ma l’impressione negativa di disagio mi è rimasta a lungo.
Per
fortuna, per me non ci sono state complicazioni e così ho potuto ritornare
presto a casa, ma l’impressione negativa di disagio mi è rimasta a lungo.
Sulla
base di queste esperienze, ci si rende conto che, fin dal primo approccio, c’è
da mettere in discussione il sistema sanitario nazionale con la questione delle
priorità a cui assegnare le risorse dello Stato, quelle che si costituiscono
con l’alta tassazione a cui noi tutti in Italia siamo sottoposti. Qualche
volta, però, per migliorare la situazione dei pazienti potrebbe bastare anche
poco. Ad esempio, l’Ospedale Galliera di Genova, come molti altri che in Italia
dispongono di strutture architettoniche dei secoli scorsi, ha corridoi enormi,
ovviamente inutilizzati per tutta la loro ampiezza, per cui penso che non dovrebbe
essere difficile impiegare anche solo una piccola parte di questi spazi (con
paratie o sistemi di tendaggi, come nei reparti) per rendere meno problematica
la degenza di chi, dopo la diagnosi al pronto Soccorso, deve rimanere in attesa
di un posto letto.
Ma
piuttosto è tutto il sistema dei Pronto Soccorso che andrebbe messo in
discussione e rivisto, in quanto oggi rappresenta nel nostro sistema sanitario
l’unica possibilità di contatto medico in caso di incidente o di malore, non
essendo i medici di base disponibili se non in limitati e rigidi orari. Forse
qualcosa si sta muovendo, o almeno si sta prendendo consapevolezza di questa
situazione, in quanto Renzi ha recentemente ipotizzato ambulatori aperti giorno
e notte, con ovvio alleggerimento dei Pronto Soccorso, ma lui parla, parla e
sappiamo che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare!”.
IO HO PER FORTUNA ESPERIENZE MIGLIORI SIA AL SAN MARTINO DI GENOVA CHE AL PRONTO SOCCORSO DI NOVI LIGURE. MA CREDO DIPENDA DA FORTUNA ... COMUNQUE, DOPO AVERE LETTO LA STORIA DELL'ORRORE A REGGIO CALABRIA, RINGRAZIO I MIEI GENITORI DI AVERMI FATTO NASCERE A GENOVA.
RispondiEliminaSi avete proprio ragione, i Pronti Soccorsi sono tutti infernali e poi in mano agente che sembra non accorgersi che tu sei li in uno dei momenti peggiori della tua vita, senza nessuna possibilità, ma loro sono induriti.
RispondiEliminaLa cosa peggiore è che al Pronto Soccorso non ti lasciano un famigliare, un parente, un amico vicino e nemmeno chiamare con il cellulare per cui ti senti completamente perso in quel mondo da cui non sai se, come e quando uscirai. E' soprattutto una questione psicologica di ansia e di disorientamento che si aggiunge ai problemi fisici che di solito hai già in quell'occasione.
RispondiEliminaMi pare che questi autisti peruviani e cileni ormai imperversino in Italia. Dicono che siano bravi perché sono abituati a guidare in strade difficili, ma certo che qui sono piuttosto sprovveduti. A me è capitato in una gita in pullman che uno di loro ci ha portato in un posto diverso da quello dove volevamo andare ... e poi voleva ancora aver ragione.
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