domenica 24 aprile 2016

AL PRONTO SOCCORSO


Carlo Biancheri e Rosa Elisa Giangoia

Se l’Alighieri avesse avuto anche una sola esperienza di ingresso e permanenza in un qualunque Pronto Soccorso di un attuale ospedale italiano, molto probabilmente ne avrebbe fatto l’ambiente di un suo luogo di punizione infernale, magari per una delle Malebolge. Ai suoi tempi, però, dobbiamo ricordarci che era ancor peggio, dato che non c’era quasi nessuna forma di assistenza, se non affidata all’occasionale pietosa carità cristiana. Occorre, quindi, dar atto dell’enorme progresso che la medicina e l’assistenza sanitaria hanno fatto, soprattutto da quando, in base all’evangelica parabola del Buon Samaritano, sono stati superati il rifiuto e l’emarginazione del malato, tipici del mondo classico, ben rappresentati dal Filottete di Sofocle, e si è iniziato a prendere coscienza della necessità della cura e dell’assistenza nei confronti dei malati, dal che è nato tutto il sistema ospedaliero, dai primi Hôtel-Dieu (straordinario quello di Beaune, in Borgogna, della metà del XV secolo) fino all’attuale organizzazione, ormai completamente laica.

Noi due abbiamo avuto recentemente esperienze nei Pronto Soccorso di due diversi ospedali, a Roma e a Genova che vogliamo raccontare, per fare poi qualche considerazione…

Carlo
Era dicembre, ma sembrava marzo a motivo dello sconvolgimento del clima, dopo un autunno senza piogge. Non era quel che gli anglosassoni chiamano Indian Summer ma una fresca mattina di primavera nel cuore di Roma, vicino al mausoleo del crudele Augusto che dopo la battaglia di Azio si fece costruire la tomba per sé, per gli eredi designati e premorti e per la sua amata Livia che era stata portata al nuovo connubio dal suo primo marito, sebbene incinta di Druso. Anche i figli di Giulia vennero sepolti lì, ma non lei, perché indegna, come Nerone: si accoppiava con tutti dopo esser stata obbligata dal padre a sposare un anziano come Agrippa e così morì in esilio su un’isoletta, forse di inedia… Anche l’Ara pacis, sopra la Ripa Grande, magnificamente disegnata dal Piranesi, era nei pressi o meglio quel che resta di essa, giacché il ladro Bonaparte ha portato al Louvre il retro dell’Ara stessa, bellissimo, peraltro. Procedevo  verso via Lata, al tempo di Augusto, ora via del Corso, dove gli Ebrei erano costretti a correre svillaneggiati dal popolino feroce, sulla mia bicicletta francese, solida e non costosa, grazie al mercato interno dell’Unione Europea o almeno di quel che resta…
È un attimo quando vengo strattonato al braccio sinistro da una city car nera in accelerazione: la bicicletta casca sulla destra e io volo sulla sinistra e mi trovo in mezzo alla carreggiata per terra, con il casco che ha attutito la botta alla testa. Il montone, che mi aveva protetto dall’inverno bulgaro a -20°, fu provvidenziale nella caduta. Mi capitava per la prima volta, a settant’anni, di trovarmi steso sull’asfalto: non si sta male. Subito intorno un capannello di gente premurosa, stupefacente in un tempo di egoismo selvaggio: «Sono un medico. Ha perso conoscenza?». «No, non mi pare…». «Non si muova» e mi slaccia il casco. «Non si preoccupi - dice una donna- ho già chiamato l’ambulanza e i vigili», mentre io tiravo fuori dalla tasca il telefonino e chiamavo: «Barbara, sono per terra in via Tomacelli…». «Dove ti portano? Al Santo Spirito?». «Pino, sono bravi? Forse ho il femore rotto…». «Come tieni il piede, in alto?». «Sì!» «Allora non è il femore…». Di nuovo il medico: «Riesce ad alzare le gambe?». «Una sì e una no…». E poi un altro: «Ha le chiavi della bicicletta?». «Sì! grazie, ma spostatemi di qui, blocco il traffico…». «Non si preoccupi delle macchine… » e una voce femminile chiede: «Ma come è successo?». «Una macchina nera mi ha investito… Sì, sì ho visto!… e mi giro: è quella!». «Quella macchina è mia - dice una donna vestita da amazzone, con lunghi orecchini - ma io l’ho vista volare dallo specchietto…». «No! signora, lei mi ha investito» rispondo con voce flebile… Silenzio… Arriva l’ambulanza, modello 2000, faccio appena in tempo a leggere le prime due lettere della city car nera, una Smart, e vengo caricato sulla “carrozza” e comincia il tragitto sui residui sampietrini di Roma. Avevo l’impressione di trovarmi su uno di quei carri traballanti del West americano nell’Ottocento. Poche domande da parte del personale, codice giallo, così si risparmia la risonanza magnetica che non viene eseguita. Arriviamo nell’ospedale che deve accogliere i feriti in caso di attentato da parte dell’Isis in piazza S. Pietro durante l’Anno Santo. Subito le lastre: ambiente allegro, stanzette, corridoi, un gran freddo, in quanto mezzo svestito con una copertaccia addosso ma, per fortuna, col montone, perché altrimenti una polmonite era  pressoché certa. Un andirivieni di gente, non saprei dire verso dove…
Poi inizia la lunga attesa al pronto soccorso alle ore 13.45.
Uomini donne, tutti assieme appassionatamente! «Ahi, fatemi qualcosa, non ce la faccio più!» si lamentava una… «Che c’è?» rispondeva uno che ricordava un monatto. In effetti, i volti corrispondevano a quei personaggi del Manzoni  induriti e insensibili alle sofferenze altrui, con le sopracciglia trattate, come fanno i giovani uomini adesso… Uno per la verità era più umano, un po’ come quello che gridò dietro a Renzo: «Scappa, scappa, povero untorello! Non sarai tu a soppiantare Milano». Aspetta, aspetta… non succede nulla… Viene Barbara, viene Giovanni trafelato, possono stare pochi minuti... Non mi posso muovere e chiedo al monatto dal volto umano acqua, gli arnesi per le necessità corporali…; ero su una barella altissima ma, essendo abituato a cavarmela da me, mi arrangiai da solo per le mie necessità, sebbene una gamba fosse immobile. Ciò incuriosì l’inserviente come se avessi battuto un record sportivo, perché il pappagallo era per terra. Aspetta, aspetta, alle 15.30 vengono i vigili con barba lunga, mai visti sul luogo dell’incidente (mi è stato poi spiegato che c’è una macchina sola per gli incidenti nel centro di Roma per un ambito di 20 km…) per strapparmi una firma con la quale mi notificavano che dovevo presentarmi entro cinque giorni vicino al Circo Massimo per spiegare quel che era successo. «Come vengo? – dico - In elicottero?». «No, non si preoccupi, lei ha diritto ad ottenere una proroga di quaranta giorni…» mi spiegano. Ho dovuto chiedere la proroga! Chiedo varie volte se mi visitano e scopro così che c’è un solo ortopedico, è sabato pomeriggio…, e poi era venuta una famosa conduttrice di programmi televisivi, la nuova aristocrazia, che era naturalmente stata visitata subito e, infatti, i monatti in questione gridavano il suo nome che taceremo per carità di patria…
Finalmente alle 19.20 mi portano nella sala affollata e cioè lo studio dell’ortopedico che mi dice: «No, lei non ha nulla di rotto ma c’è qualcosa… Occorre fare un’ecografia.» E qui inizia la discesa all’inferno. Viaggio in corridoi  del tipo rifugi bellici: i pellegrini in caso d’attentato, pensavo tra me, se non muoiono in loco,  muoiono qui… L’ecografo stava per smontare  e la macchina dell’ecografia, situata in un locale fatiscente che sembrava un deposito del servizio dei rifiuti urbani, era malfunzionante ed antidiluviana. «Non si vede nulla perché c’è tanto sangue», il responso.
Torniamo per i gironi infernali nell’affollata stanza del demiurgo/ortopedico e qui succede che squilla il telefono, un lutto per il medico che piange e tutti a fare le condoglianze, paziente incluso, cioè io. «Non importa». Poi aggiunge: «Lei deve essere operato ma non si può fare prima di tre giorni anche se è urgente…». «Ah! mi fà male anche la spalla». «Sì, ma le fà male solo sopra: non rileva…». Scoprirò poi che si era creata una cisti per la caduta. Intanto, dopo le mie letture sulla mala sanità, pensavo febbrilmente sul da farsi e, affidandomi alla Provvidenza, osai dire: «Scusi, dottore, in passato ero stato operato dal Professor…». «Ah! Lei è un libero cittadino! Se vuol andare via faccia pure, però io scrivo che deve esser ricoverato in altra struttura ospedaliera e non può aspettare neppure una settimana. Del resto qui non c’era posto, vero?». «Sì! - risponde l’infermiere prono - lei deve trovare un posto di ricovero in regione». A quel punto io già pensavo ai monti del Viterbese o alla campagna di Velletri con un famoso chirurgo in grado di effettuare un’operazione rivelatasi nel prosieguo assai complessa… Uscito dalla stanza col foglio di dimissioni in mano, sempre in barella, noto resistenza per aiutarmi a trovare un’ambulanza… Capisco di aver provocato offesa all’amor proprio per la mia opzione di uscire dal loro circuito ospedaliero, ma ero pure mal ridotto con un’immobilizzazione della gamba troppo stretta. «Non gonfia?» avevo chiesto. «No, stia tranquillo è libera…» mi avevano rassicurato e, infatti, il giorno dopo era la zampa di un elefante….
Grazie ai buoni uffici ed alla diplomazia di Giovanni, uno di quelli che mi figuravo come monatti ci dà una lista di croci bianche, rosse ecc… con i numeri telefonici… «Deve aspettare tre ore…» mi dicono dal centralino della prima. «Va bene, veniamo» risponde un’altra… e dopo quaranta minuti… arrivano. Ma l’autista era peruviano: «Que suerte! Anche mia cognata è di Lima!» gli dico. Purtroppo non conosce Roma e così Giovanni, proveniente da un paese dell’Est, va avanti con la sua macchina e guida l’ambulanza… trovata fortunosamente il sabato sera nella cosiddetta Roma Capitale. Che avesse ragione Gioberti con la federazione?
A farla breve, sono stato operato in clinica da un luminare due giorni dopo al quadricipite, potendo sostenere la spesa e grazie all’assicurazione.
E che succede per chi non può? Torniamo al tempo di Esmeralda, agli sciancati che si affollano attorno a Nôtre Dame?
Post scriptum: l’investitrice se n’è tranquillamente andata senza aver lasciato le generalità…

Rosa Elisa
Qualche giorno fa, senza sapere bene come sia capitato, mi sono ritrovata per terra in casa mia, in cucina, con un taglio in testa da cui perdevo molto sangue. Mi sono precipitata ad aprire la porta di casa e a chiamare Sabrina, la portinaia, che è subito accorsa e ha cercato la mia vicina di casa, Liliana, medico e amica carissima. La ferita era profonda per cui me l’hanno tamponata con il ghiaccio e avvolto la testa in asciugamani in attesa che arrivasse l’ambulanza per portarmi al Pronto Soccorso dell’Ospedale Galliera a Genova. L’attesa, per fortuna è stata breve e il viaggio rapido, anche se l’ambulanza, come tutti i mezzi così alti, scrolla in modo inopportuno.
Appena lasciata  la sedia pieghevole su cui mi avevano trasportata gli addetti del 118, i due infermieri, che mi avevano trasferita sulla barella, hanno iniziato a litigare con il milite del 118 su chi dovesse alzare la barella, dopo che era stata abbassata per farmi stendere. Mentre rimanevo con la barella sul pavimento la mia mente andava ai diavoletti infernali del canto XXI dell’Inferno dantesco, ovviamente per deformazione professionale!
La controversia, per fortuna, non è durata molto, perché il milite del 118 è andato fuori a chiamare il suo collega che era rimasto sull’ambulanza (forse non doveva rimanere incustodita?) e così sono stata sistemata in un angolo del Pronto Soccorso, preoccupata di dire qualcosa a Liliana che gentilmente mi aveva accompagnata ed era rimasta nell’affollata sala d’attesa, per cui ho contravvenuto al divieto di usare il cellulare e le ho fatto una rapida telefonata.
Anche se un po’ lentamente le procedure sono andate avanti con la sutura, gli esami vari fino alla TAC: niente da dire, medici e infermieri professionali e cortesi, quel tanto che dà l’idea che in questo ospedale, nato dalla munificenza della Duchessa di Galliera e retto dalla Curia diocesana, perduri una spolverata di cristiana misericordia. Poi la diagnosi di trauma cranico con possibilità del sopraggiungere della commozione celebrale e allora … l’attesa “in osservazione”.
Questa è stata la fase peggiore, dalle coloriture infernali. Sistemata su una scomodissima barella, affiancata a molte altre su cui uomini e donne, con patologie diverse, anche gravi, stazionavano già da diversi giorni e notti. Lamenti, grida, parole sconnesse, rumori vari, scarsissima assistenza, mancanza di separazione tra uomini e donne, nessuna privacy, spostamenti frequenti per sistemare i nuovi arrivati, vista aperto sull’accesso al Pronto Soccorso, difficoltà a rimanere sulla sempre più scomoda barella, divieto dell’uso dei cellulari, nessuna alternativa in attesa del liberarsi di un posto letto nel reparto o delle dimissioni.
Dato che in Italia i posti letto sono 4 ogni mille abitanti (a differenza del Giappone dove sono 14, della Germania dove sono 8 e della Francia dove sono 7), magari ci vuole anche un po’ di tempo prima che se ne renda disponibile uno, come sappiamo dai frequenti fatti di cronaca anche con spostamenti da un ospedale all'altro ed esiti conseguenti purtroppo drammatici.
Molto disagevole, se non drammatico, è trascorrere anche una sola notte su una barella al pronto Soccorso. Aspettavo con ansia l’esito di tutti gli esami, già sapendo che, in caso di necessità di ricovero, avrei dovuto attendere un posto-letto libero, magari a livello regionale (da La Spezia a Ventimiglia…), come mi era successo qualche anno fa quando mi ero fratturata la spalla. A consolarmi solo l’idea che qualche giorno in clinica me lo potevo permettere…
Per fortuna, per me non ci sono state complicazioni e così ho potuto ritornare presto a casa, ma l’impressione negativa di disagio mi è rimasta a lungo.
Per fortuna, per me non ci sono state complicazioni e così ho potuto ritornare presto a casa, ma l’impressione negativa di disagio mi è rimasta a lungo.

Sulla base di queste esperienze, ci si rende conto che, fin dal primo approccio, c’è da mettere in discussione il sistema sanitario nazionale con la questione delle priorità a cui assegnare le risorse dello Stato, quelle che si costituiscono con l’alta tassazione a cui noi tutti in Italia siamo sottoposti. Qualche volta, però, per migliorare la situazione dei pazienti potrebbe bastare anche poco. Ad esempio, l’Ospedale Galliera di Genova, come molti altri che in Italia dispongono di strutture architettoniche dei secoli scorsi, ha corridoi enormi, ovviamente inutilizzati per tutta la loro ampiezza, per cui penso che non dovrebbe essere difficile impiegare anche solo una piccola parte di questi spazi (con paratie o sistemi di tendaggi, come nei reparti) per rendere meno problematica la degenza di chi, dopo la diagnosi al pronto Soccorso, deve rimanere in attesa di un posto letto.

Ma piuttosto è tutto il sistema dei Pronto Soccorso che andrebbe messo in discussione e rivisto, in quanto oggi rappresenta nel nostro sistema sanitario l’unica possibilità di contatto medico in caso di incidente o di malore, non essendo i medici di base disponibili se non in limitati e rigidi orari. Forse qualcosa si sta muovendo, o almeno si sta prendendo consapevolezza di questa situazione, in quanto Renzi ha recentemente ipotizzato ambulatori aperti giorno e notte, con ovvio alleggerimento dei Pronto Soccorso, ma lui parla, parla e sappiamo che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare!”.

4 commenti:

  1. IO HO PER FORTUNA ESPERIENZE MIGLIORI SIA AL SAN MARTINO DI GENOVA CHE AL PRONTO SOCCORSO DI NOVI LIGURE. MA CREDO DIPENDA DA FORTUNA ... COMUNQUE, DOPO AVERE LETTO LA STORIA DELL'ORRORE A REGGIO CALABRIA, RINGRAZIO I MIEI GENITORI DI AVERMI FATTO NASCERE A GENOVA.

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  2. Si avete proprio ragione, i Pronti Soccorsi sono tutti infernali e poi in mano agente che sembra non accorgersi che tu sei li in uno dei momenti peggiori della tua vita, senza nessuna possibilità, ma loro sono induriti.

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  3. La cosa peggiore è che al Pronto Soccorso non ti lasciano un famigliare, un parente, un amico vicino e nemmeno chiamare con il cellulare per cui ti senti completamente perso in quel mondo da cui non sai se, come e quando uscirai. E' soprattutto una questione psicologica di ansia e di disorientamento che si aggiunge ai problemi fisici che di solito hai già in quell'occasione.

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  4. Mi pare che questi autisti peruviani e cileni ormai imperversino in Italia. Dicono che siano bravi perché sono abituati a guidare in strade difficili, ma certo che qui sono piuttosto sprovveduti. A me è capitato in una gita in pullman che uno di loro ci ha portato in un posto diverso da quello dove volevamo andare ... e poi voleva ancora aver ragione.

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