Rosa Elisa Giangoia
La lettera che hanno scritto i 600 docenti universitari
sulla inadeguatezza della conoscenza della lingua italiana da parte degli
studenti universitari è la denuncia della grave incapacità del
nostro sistema scolastico di fornire a tutti competenze adeguate ad un uso
attivo e passivo della lingua madre, requisito base per accedere a tutte le
altre conoscenze e competenze, sia di ambito umanistico che tecnico-scientifico,
per cui la scuola dovrebbe farsi carico di portare tutti ad un adeguato livello.
Testo interessante, ma poco efficace, per il fatto che
constata un fallimento, ma non ne affronta le cause e non propone nessuna
strategia che possa risolvere o almeno migliorare la situazione.
Se basso è il livello di quanti accedono
all'Università, è facilmente immaginabile quale sia quello di chi ha completato
l’obbligo scolastico a 16 anni o anche di tutti gli altri che, magari, pur
avendo studiato fino alla maturità, non hanno voglia o opportunità di
proseguire, anche se oggi l’Università continua spesso a ricoprire il ruolo di
“parcheggio” per i giovani, data la grande difficoltà ad inserirsi nel mondo del
lavoro per la fascia 18-25 anni.
La denunciata scarsa conoscenza della lingua italiana ha
origini e cause lontane e complesse, cause nei confronti delle quali la scuola
deve prendere consapevolezza del proprio fallimento.
Per analizzare il problema occorre tracciare un minimo
di retrospettiva storica.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso accedevano agli studi medio superiori davvero solo “i capaci e i meritevoli”, raramente sostenuti da quegli aiuti che la Costituzione prevedeva, quasi sempre grazie ai sacrifici dei genitori che si impegnavano per dare maggiori opportunità ai figli. Si trattava, però, di ragazzi motivati nello studio, con buone capacità e determinazione, sostenuti anche dall'idea che quegli anni di impegno nello studio avrebbero poi consentito loro occasioni di lavoro adeguate nella vita.
In questi casi la difficoltà dell’apprendimento della lingua italiana era per lo più dovuta alla persistenza dell’uso del dialetto nell'ambito familiare e sociale, quindi con diversificazioni regionali, ma abbastanza facilmente individuabili e superabili.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso accedevano agli studi medio superiori davvero solo “i capaci e i meritevoli”, raramente sostenuti da quegli aiuti che la Costituzione prevedeva, quasi sempre grazie ai sacrifici dei genitori che si impegnavano per dare maggiori opportunità ai figli. Si trattava, però, di ragazzi motivati nello studio, con buone capacità e determinazione, sostenuti anche dall'idea che quegli anni di impegno nello studio avrebbero poi consentito loro occasioni di lavoro adeguate nella vita.
In questi casi la difficoltà dell’apprendimento della lingua italiana era per lo più dovuta alla persistenza dell’uso del dialetto nell'ambito familiare e sociale, quindi con diversificazioni regionali, ma abbastanza facilmente individuabili e superabili.
In seguito, grazie anche alle migliorate condizioni
socio-economiche del nostro paese, la frequenza agli istituti medi superiori è
diventata progressivamente sempre più ampia, con diversificazione sociologica
degli studenti, caduta dell’uso dei dialetti, forte aiuto della radio e della tv
per il progressiva diffuso miglioramento dell’uso della lingua.
Ma, nello stesso tempo la scuola ha iniziato la sua rapida discesa, con gli
snodi determinanti della semplificazione dell’esame di maturità e
dell’abolizione degli esami di riparazione, che hanno portato all'accettazione
di lacune disciplinari, non essendo possibile per ragioni economiche compensarle
con adeguati corsi di recupero. Questo ha creato un ulteriore abbassamento del
livello con promozioni per voto di consiglio (per i non addetti ai
lavori vuol dire far diventare sufficiente un’insufficienza anche grave in sede
di scrutinio) quando la scuola non era in grado di provvedere didatticamente.
Nel frattempo i vari Ministri della Pubblica Istruzione
di sinistra e di destra che si sono susseguiti nei decenni hanno dato i loro
negativi contributi con scelte inopportune che sono iniziate con la
liberalizzazione degli accesi universitari dettata dalla demagogia
pseudomarxista di uno poco equilibrato come Donat Cattin (lui stesso non
laureato) e sono proseguite con le sperimentazioni mai verificate,
con i corsi di aggiornamento per insegnanti “fai da te”, con il cambiare i nomi
degli istituti tecnico-professionali, facendoli diventare tutti licei (da quello
della Panificazione a quello della Moda!), dando eccessiva enfasi alle famose
tre “i” (impresa, informatica, inglese) e nello teso tempo, rendendo le classi
più affollate, demotivando i docenti con l’eccessivo precariato, eliminando la
continuità didattica.
Tutto questo ha trasformato la scuola in un sempre più
lungo e affollato parcheggio per giovani, sempre più diversificati
anche per l’accesso degli immigrati di lingue e culture molto differenti,
giovani che non sempre accedono alla scuola con seria motivazione e
determinazione, ma piuttosto per l’obbligo fino a 16 anni (sulla cui
organizzazione e offerta ci sarebbe molto da dire!), e poi per mancanza di
alternative, sovente sfiduciati per la consapevolezza che, usciti dalla scuola,
non avranno una condizione lavorativa adeguata.
Di fronte a tutto questo ci sarebbe voluta una seria
politica di rielaborazione della didattica funzionale alla realtà, mentre tutto
è affidato alla buona volontà e alle capacità d’iniziativa degli insegnanti (i
meno pagati d’Europa!). Sarebbe stato importante ricordarsi della Lettera a
una professoressa e della Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, per
capire che non è un buon criterio quello di abbassare la qualità nell'assunto
che non tutti possono accedere... Infatti la Scuola di Barbiana è stata un
esempio dell’importanza di legare l'istruzione alla vita (quella
degli emarginati), ma nel contempo dell’attenzione a mantenere la qualità dell'
insegnamento. Riprodurla su larga scala, sarebbe stato molto, molto
costoso…
Gli ultimi interventi nella scuola hanno visto
diminuzioni di ore di insegnamento di Italiano e di Latino nei licei classici e
scientifici, quindi provvedimenti non certo utili ad un miglioramento delle
conoscenze della lingua italiana da parte dei ragazzi, anche se per chi esce da
questi due tipi di scuola la tenuta è ancora buona. Il problema si pone per
tutti quei ragazzi diplomati in licei tali solo di nome, nonché negli istituti
tecnico-professionali, tutti con possibilità di accedere a qualunque facoltà
universitaria. Ragazzi con scarsissimo retroterra di cultura familiare, non
abituati alla lettura e all’ascolto della radio, spettatori di tv spazzatura,
ghettizzati in ambienti periferici autoreferenziali, privi di
contatti con altre agenzie educative (tramontati ormai gli oratori e le scuole
di partito!), frequentatori dei social, con l’unico contatto culturale
rappresentato dalla scuola, incapace di fronteggiare bisogni educativi di massa
e di far corrispondere le valutazioni ai livelli reali di
apprendimento.
Come risolvere la situazione? La risposta sembrerebbe
ovvia: eliminando il lassismo dilagante nella scuola italiana, ponendo delle
barriere per cui chi non ha acquisito conoscenze e competenze sufficienti non va
avanti fino a quando non ha adeguatamente colmato le sue lacune, per raggiungere
il quale obiettivo la scuola dovrebbe metter in atto strategie efficaci,
naturalmente con impiego di risorse.
Purtroppo l’andazzo sembra opposto: le prime iniziative
del neo-ministro Valeria Fedeli vanno in tutt'altra direzione. Innanzitutto dal
2018 si abolirà la terza prova dell’esame di maturità, che almeno obbligava gli
studenti a studiare alcune materie, tra cui l’Inglese, sempre presente, poi si
verrà ammessi all'esame di maturità anche con insufficienze in alcune
discipline, purché la media (a cui concorrono anche Educazione Fisica e
Condotta) sia sufficiente. Non sarà raro, lo prevediamo con cognizione di causa,
che studenti con l’insufficienza in tutte le materie vengano ammessi avendo 10
in Educazione Fisica e Condotta!
Viene da chiedersi perché tutto questo. Non ricorriamo
all'antica presunzione del sovrano che pensava che fosse meglio l’ignoranza del
popolo così lui sarebbe apparso colto, pensiamo che la ministra Fedeli, priva di
un diploma di maturità quinquennale, tema che l’esame lo facciano sostenere a
lei!
A questo punto la salvezza potrebbe venire solo dai
docenti universitari che dovrebbero stabilire rigorosi esami di verifica delle
conoscenze e delle competenze per l’accesso a tutte le facoltà. Abbiamo seri
dubbi che questo accada: il Ministro della Pubblica Istruzione è anche Ministro
dell’Università e della Ricerca Scientifica…
Mi sembra che una lettera firmata da soli 600 docenti universitari sia poco significativa, perché sono un numero abbastanza esiguo. E poi dovrebbero fare una verifica per evidenziare da quali tipi di scuole provengono gli studenti con maggiori difficoltà nell’uso della lingua. Certo che per far imparare tutto bene a tutti, bisognerebbe che le classi fossero molto piccole, infatti una volta i ricchi avevano l’insegnante privato, uno per ogni ragazzo: vuoi mettere! Poi, per migliorare l’Italiano, nelle scuole bisognerebbe abolire le verifiche a quiz, ma abituare i ragazzi a esporre tutto bene per scritto e per orale.
RispondiEliminaSì, è vero. Seicento docenti sono una percentuale bassa, in quanto secondo l’ultima indagine ISTAT (2011) in totale sarebbero circa 57.000. Occorrerebbe un’indagine scientifica sulla reale conoscenza della lingua italiana da parte degli studenti degli istituti medi superiori. A questo sono finalizzate le prove INVALSI che dal 2018 dovrebbero essere obbligatorie in tutti gli istituti. L’importante sarà che, se si riveleranno carenze, vengano attuate strategie educative efficaci.
EliminaNella scuola media le prove INVALSI si sono rivelate una PROVA per i docenti e non per gli allievi, molti dei quali indovinavano il "vero/falso". Le prime volte addirittura si doveva attendere la scheda per la correzione, da altri Centri ...Cose incredibili!! Vedremo, se migliorerà qualcosa
RispondiEliminaHa ragione...!
EliminaLa didattica delle lingue, specialmente di quella materna che poi serve da base per l’apprendimento di tutte le altre, richiede pazienza, lentezza e costanza. Una volta c’erano queste caratteristiche nell’insegnamento, pur senza tante teorizzazioni metodologiche. Si iniziava con un buon apprendimento della calligrafia, portando tutti a scrivere in corsivo, senza la semplificazione di permettere l’uso costante, anche da adulti, dello stampatello, si proseguiva per il consolidamento ortografico col dettato, si andava avanti con l’elaborazione del pensiero concettuale con i “pensierini”, poi elaborati in chiave logico-conseguenziale nel tema e nello stesso tempo si irrobustivano le conoscenze con pagine e pagine di coniugazione di verbi regolari e irregolari, con versione in prosa di testi di poesia, con riassunti, con studio a memoria di poesie, con esercizi di analisi grammaticale, logica e del periodo. Adesso chi fa più queste cose? Cose che richiedono applicazione, dedizione, tempo e pazienza da parte degli studenti e degli insegnanti per la correzione... Aboliamo le teorizzazioni didattiche, togliamo di mezzo i libri di testo in cui ci sono solo esercizi con frasi da completare, parole da sottolineare, crocette da apporre e altre cose simili... Ammettiamo che tutte queste cose non hanno portato ai risultati voluti, riprendiamo in mano i vecchi metodi che raggiungevano buoni risultati, applichiamoli a tutti fin dalla scuola elementare. Cosa ci vuole? Impegno per studenti e insegnanti. Mettiamo a tacere le voci dei genitori che si lamentano se i ragazzi passano del tempo a scrivere sui quaderni... Incentiviamo gli insegnanti per la correzione dei quaderni...
RispondiEliminaVi segnalo quest’articolo http://www.leparoleelecose.it/?p=26536 perché penso possa interessare anche a voi, integrandosi con quanto avete scritto nel blog.
RispondiEliminaGrazie per i vostri post, sempre molto interessanti.