Relazione tenuta da Carlo Biancheri in occasione della presentazione del romanzo FEBE. Dal tempo all'eterno il 16 maggio 2019 presso l'Oratorio di San Filippo a Genova.
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«Vi
raccomando Febe nostra sorella che è diaconessa della Chiesa di Cencre, affinché
voi la riceviate nel Signore in maniera degna dei santi e l’assistiate in tutte
le cose di cui avrà bisogno perché essa pure ha assistito molti ed anche me».
Così dice san Paolo nella conclusione della Lettera ai Romani (Rm 16,1),
quando invia i saluti
finali ai destinatari del suo messaggio che vivono a Roma.
Febe è quindi una donna greca di cui sappiamo solo questo dalle parole di
Paolo, per cui l’autrice del romanzo si impegna nell’”invenzione della verità”,
immaginando l’esistenza di questa donna nello scenario del suo tempo.
È
una donna di Cencre, piccolo centro sul
mar Egeo, non lontano da Corinto (il canale per attraversare l’istmo allora non
c’era ancora, iniziato da Nerone e poi abbandonato, perché costava troppo, è
stato costruito solo 1800
anni dopo…) che vive il suo tempo, si interroga sul senso della vita e si
imbatte in un annuncio nuovo, scandaloso per la sua cultura, quello del Vangelo
che le arriva attraverso le parole di Paolo.
La
domanda centrale di questo romanzo è
dunque quale sia l’impatto del messaggio cristiano nel contesto culturale
greco-romano.
Ma,
per trovare una risposta e comprenderla appieno, bisogna esaminare com’era il mondo greco-romano nei
primi decenni dopo Cristo. In primo luogo, materialista e individualista, con
la vita percepita come un’illusione in vista dell’eternità oppure nella
perennità materiale degli atomi, secondo
Democrito. Esempi quotidiani di materialismo erano dati dalla diffusa
pratica dell’aborto, dall’edonismo dilagante, dalla frequenza dei divorzi,
dall’immoralità in cui erano cadute le matrone che si pagavano i piaceri con
gli schiavi, dall’omosessualità diffusa, dall’abitudine di acquisire denaro con
la corruzione e con altri mezzi illeciti. Comportamenti analoghi venivano anche
dall’alto: basti pensare che Livia fu consegnata in moglie ad Augusto dal
precedente marito, di lui incinta, o che Giulia, figlia di Augusto, accusata di
immoralità, fu lasciata morire di fame nelle isole Pontine o che, tra congiure
e complotti, Nerone uccise la madre Agrippina.
Va
detto che nessuna civiltà si era
interrogata così profondamente sulla
vita e sull’uomo prima di quella greca. In Egitto si descriveva la vita
presente e la futura senza soluzione di continuità con gli dei buoni o malvagi
onnipresenti, come un doppio nel quotidiano.
Étienne
Gilson nel suo saggio Dieu et la
Philosophie, ricorda che tutto ha
inizio con Talete di Mileto che sostiene che il primo principio da cui è nata
ogni cosa è l’acqua, ma Aristotele aggiunge che sosteneva che
«Tutte le cose sono piene di dei».
Come
conciliare queste due affermazioni? Il fatto è che Talete non parla che di
energie fisiche, quando si riferisce agli dei, e così faranno i suoi
successori, come Anassimandro che descrive l’indefinito come principio divino o
Anassimene che sostiene che l’aria infinita è la causa prima di tutto ciò che
è, dei ed esseri…
E
allora come si definisce un dio? Bisogna rifarsi ad Omero ed Esiodo.
Nell’Iliade sembra che il termine dio si
riferisca ad una serie di oggetti
differenti, moltissimi.
Quando
Zeus convocava tutti gli dei sull’Olimpo non vengono solo i capricciosi
abitanti lì residenti, ma tutti i fiumi, tranne Oceano, erano presenti,
tutte le ninfe dei fiumi, delle praterie, degli stagni, delle sorgenti, e poi
il Cielo e la Terra erano dei e tutte le
grandi fatalità naturali: il Terrore, la Sconfitta, la Discordia, la Morte, il
Sonno, signore di tutti gli dei e di tutti gli uomini per legge universale,
anche se, diversamente dai mortali, gli dei non muoiono, dormono.
Gli
dei invadono gli uomini, come dimostra
la collera di Achille che tanti guai generò ai Greci, dovuta all’ingiusto
comportamento di Agamennone che, però, nell’Iliade
si giustifica dicendo: «l’ingiustizia non era mia, ma era colpa di Zeus, delle
Erinni che hanno gettato il furore nel mio animo. Che potevo fare? Un dio ha
fatto ciò».
E
poi c’era il Fato, il Destino, contro cui neppure Zeus poteva nulla. Zeus
temeva la moglie Hera che lo rimproverava quando si vedevano, peraltro
raramente, e a Zeus non fu possibile difendere dalla Morte neppure il figlio
amato Sarpédone, ucciso da Patroclo; Hera gli dice: «non puoi intervenire e
mutare il destino».
Per
queste ragioni un greco religioso si sentiva il campo di battaglia di influenze
divine spaventose e troppo spesso in conflitto tra loro, anche se Pindaro dice
che sono gli dei che procurano ai mortali tutti i mezzi per realizzare ciò che
desiderano ed è grazie agli dei che gli uomini sono saggi coraggiosi ed
eloquenti.
Per
questo il Pantheon era venerato e, insieme agli abitanti dell’Olimpo, anche gli
antenati, gli dei domestici, erano oggetto di preghiera e venerazione: se si
tratterà di un viaggio per mare ci si rivolgerà a Poseidone, per una malattia
ad Esculapio, ma per gli spirituali e gli intellettuali c’erano i misteri di
Eleusi, che comportavano un’iniziazione e che attenevano alla vita ed alla
morte, al destino dell’uomo ed all’al di là.
Febe
si avvicina anche a loro, ma non trova una risposta profonda,soddisfacente.
E
c’era la gnosi con cui anche Febe si confronta. Erano quelli che sostenevano
(come nel romanzo, il maestro Cerinto, venuto dalla Siria) che la materia è
decadenza, mentre lo spirito è liberazione, e che l’io divino è prigioniero
della materia da cui lo spirito deve liberarsi mediante la conoscenza. Chi
raggiungeva questo era uno pneumatico, contrapposto agli ilici, cioè agli
uomini comuni materiali; solo allo spirito, frammento dell’anima del mondo,
sarebbe stata assicurata l’immortalità, il ricongiungimento con il soffio
vitale, primo principio creatore. La malvagità della materia dipendeva da un
difetto delle sfere celesti, mentre lo spirito
aveva in sé qualcosa di divino.
L’autrice
fà intervenire Paolo in questo contesto intellettuale che aveva ormai trascurato gli dei dell’Olimpo.
Lui annuncia la creazione/genesi, il peccato originale, ma soprattutto Cristo morto e risorto. In
particolare sostiene che anche gli umani risorgeranno in anima e corpo, avendo
acquisito, con la vita da seguaci di Gesù, la padronanza su di sé, tanto da
consentire allo spirito di esprimersi.
Il
maestro gnostico sostiene la posizione dualistica con la contrapposizione tra
spirito e materia, dove la materia è
sentita come malvagia, tanto che riguardo ai rapporti sessuali sostiene che non
bisogna avere alcun senso di colpa, perché la materia è decadenza: quel che
conta è la comprensione spirituale. Non sono per caso le tesi illuministiche
elaborate nel Settecento? Di certo al tempo della Rivoluzione Francese, senza
arrivare all’Essere supremo di Robespierre, si professava qualcosa di molto
simile.
E
poi quando l’allegra brigata dell’Olimpo era sempre meno ossequiata, e lo era
solo dal popolo minuto, compare Epicuro che ritiene che gli dei siano esseri
materiali che esistono dall’eternità, la cui beatitudine consiste nell’impassibilità
e quindi men che meno manifestano un qualche interesse per gli uomini, e poi
gli Stoici: per loro il dio è il fuoco che unifica tutto e a causa sua il mondo
è uno; un’armonia che si diffonde in tutte le cose, una simpatia che tiene
insieme le sue parti per cui ciascuno di noi si trova in lui come una delle sue
numerose parti. La causa del mondo è un torrente che trascina tutte le cose. La
natura del Tutto si sente spinta alla creazione di un universo e ciò che regge
tutto è la Ragione sovrana dell’Universo. Così si
arriva fino a Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, che però non ha dei:
la sua è una saggia rassegnazione disperata, dice Gilson.
Platone,
invece, che ha inventato le idee come spiegazione filosofica, non divina, non
ha inventato gli dei che appaiono nella sua dottrina come un’eredità venerabile
degli antichi (la mitologia) e li spiega descrivendo un essere vivente che si muove in modo
intenzionale, noi diciamo che ha un’anima e questo è qualcosa di divino. E come
riconoscere il movimento delle stelle? Anch’esse hanno qualcosa di divino.
Più
avanti parleremo di Aristotele.
Questo
il quadro delle varietà di pensiero in cui si
viene a trovare Febe.
Lei
parte dalla domanda se esista qualcosa che tenga conto delle sofferenze umane, se ci sia qualcuno che ascolti il dolore dell’uomo, che raccolga le lacrime; che fosse un dio, oppure tanti dei, non le pareva importante, purché
vedesse le sofferenze, quelle nascoste di
cui altri uomini ed altre donne, anche se vivono vicino a noi, di solito non si
accorgono.
Il
confronto con la gnosi, di cui si è accennato, oppone il dio gnostico al Dio di Paolo. Il dio degli gnostici è un dio
di amore che attira tutti a sé, tramite le particelle dello spirito che sono
cadute nella materia e non castiga, né punisce… Ma sono gli stessi seguaci che
non si sanno spiegare le ragioni dei dolori, delle sofferenze e delle malvagità
per cui si chiedono chi le imponga, ma senza
risposta.
Qui
interviene Paolo con un discorso antropologico che si incentra sul fatto che
nessuno deve procurare male agli altri (neminem
ledere), cioè nessuno deve commettere
omicidi, frodi, ingiustizie, malvagità, nessuno
deve agire con cupidigia, con malizia, per invidia, di conseguenza non bisogna essere superbi né
vanagloriosi; bisogna aborrire calunnia e maldicenza. Di fronte a queste parole di Paolo tutto il consesso si
avvertì colpevole in qualche modo per cui la diatriba intellettuale non proseguì.
Nel romanzo
si pone quindi come centrale il confronto
tra le risposte del mondo greco-romano e quelle del Vangelo di Paolo ai più
inquietanti interrogativi dell’uomo sul suo
vivere e sul suo morire.
Dalla
trama e dallo sviluppo del racconto ricaviamo che Febe è affascinata dal
discorso di Paolo che le descrive la sua conversione e quel che è avvenuto, a seguito di ciò, nel
mondo giudaico, lui fariseo e figlio di farisei importanti, cittadino romano,
che cerca di persuadere i suoi correligionari che il Messia atteso è giunto per
cui la Salvezza è iniziata, per poi rivolgersi ai pagani, quando comprende
di non essere accolto nel mondo
giudaico.
Febe
si occupa dei poveri e dei malati abbandonati, il figlio Ippolito va in Oriente
e trova una comunità cristiana nel sud
dell’India dove aveva predicato
l’apostolo Tommaso, secondo il vangelo
apocrifo di Tommaso, partecipa alla vita della comunità cristiana di Corinto,
dove compare Apollo – personaggio di
grande eloquio, ma senza carità…- viene incaricata da Paolo di portare la sua lettera a Roma, sbarca dopo un viaggio in
mare con il figlio ad Ostia. E qui bisogna
sottolineare l’abilità dell’autrice nel descrivere, con fantasiosa
rielaborazione di testimonianze storiche, la vita quotidiana nella
grande città cosmopolita.
A
Roma Febe incontra sull’Aventino Aquila e Priscilla che erano stati a Corinto
quando Claudio aveva espulso da Roma i giudei, impara il latino con un litterator greco, maestro di
scuola, nelle cui mani erano arrivati i libri di Aristotele. Tra di loro
avviene un dialogo culturale: il maestro
le dà la Metafisica del filosofo greco, mentre lei, con la sua revisione, traduce in latino la lettera ai
Romani.
La
lettera non è incentrata solo sul problema della giustificazione per fede, e
che costituisce il cuore della teoria di Lutero,
privilegiando la grazia, ma grande rilievo ha anche il binomio
carne/spirito, con il monito a far spazio allo spirito mediante la padronanza
di sé. Questa prescrizione è centrale in Paolo e
ritorna anche in altri suoi testi, come la lettera ai Colossesi (3,
1-17) in cui unisce fornicazione, impurità, passioni… all’avarizia insaziabile
che è per lui idolatria, in quanto
l’avarizia è egoista e la fornicazione
usa l’altro come cosa, come oggetto. In letteratura dovremo arrivare a Justine di Sade per capire questo: Paolo l’aveva già capito, molto prima…
Tutto
il racconto è sotteso da domanda e risposta, una sorta di dialogo/confronto tra
la visione del mondo greco/romana ed il nuovo messaggio.
Ad
esempio, Paolo nel discorso all’Areopago loda la religiosità degli Ateniesi,
condivide il loro pensiero sull’inutilità dei templi e sulla paternità
universale di Dio, ma quando annuncia, traendo pretesto dall’altare al dio
ignoto, il Cristo morto e risorto, beh… gli uditori se ne vanno, dicendo: «su questo ti sentiremo un’altra volta!».
Il
contrasto è evidente con l’invocazione ebraica, insegnata a Febe da Paolo: Marana tha, mentre nel mondo di cui
aveva esperienza «Tutti parevano condannati all’eccesso, al dover godere ad
ogni costo, a non avere altra regola che il proprio piacere, senza alcun senso
del limite, una dimensione individualistica con le persone schiave del corpo e
delle sensazioni, senza considerazione per i figli, il loro futuro, senza un
progetto».
L’uomo
romano si sente signore assoluto ed arbitro del suo destino, afferma il figlio
di Febe, Ippolito, ma si sente anche molto solo, impotente di fronte al mistero
del nascere, del vivere e del morire.
La
metanoia, proposta da Paolo, si oppone allo ‘spirito del tempo’che pone al
centro di tutto il proprio io.
L’affresco
su Roma nel romanzo ce la fa avvicinare alla New York di oggi. Una città,
allora di un milione di abitanti, esentati da servizio militare e tasse, con
200.000 persone in ozio, 80 giorni
festivi, 50.000 ebrei, con frotte di schiavi, possibilità
di depredare le colonie, assistenza
diffusa fino alle columnae lactariae e
cioè le balie ‘statali’ ed i bambini abbandonati. Intanto la religione
tradizionale cadeva in desuetudine. Nessuno recitava più le preghiere redatte secondo
lo stile freddo dei contratti in un latino ormai per molti incomprensibile.
Mentre
nelle riunioni dei primi cristiani all’Aventino emerge che Cristo si oppone al
culto esteriore, molto lontano da chi vede un serpente e lo considera cosa
buona per sé, oppure reputa che i sogni del mattino siano veritieri. Anche la
filosofia a Roma era da tempo in decadenza.
Il Senato l’aveva interdetta nel 161 a.C
ed era tornata solo nel 70 a.C. con Lucullo che aveva portato a Roma Teofrasto,
conclusa la terza guerra mitridatica.
Lido
aveva trovato i libri di Aristotele e,in particolare, si interessava a quelli
sulla Metafisica ( che si chiama così perché i libri non avevano nome e cioè
venivano dopo quelli della Fisica…), la scienza dei principi primi, dell’Essere
in quanto Essere.
Qui
l’autrice opera qualcosa di comparabile a quello che fa Dante nella Commedia, quando, dopo aver letto san
Tommaso, cambia il Paradiso rendendolo tutto sotteso di tomismo.
Aristotele
afferma che tutti gli uomini per natura aspirano alla conoscenza e, aggiungo
io, dice anche che la filosofia nasce dallo stupore, lo stupore delle cose. La
scienza dell’Essere in quanto Essere si riferiva alla realtà tutta nel suo
insieme. E qui nascevano il principio di
identità o di non contraddizione, la potenza
e l’atto, con l’interrogativo stringente se il processo potesse essere all’infinito. No! La risposta ultima è il Motore immobile: il Pensiero
che pensa sé stesso, l’Atto puro. Il Motore immobile come l’oggetto amato che
corrisponde al fine cui tendere: pur non muovendosi fa muovere l’amante, il
quale ad esso tende.
«Ma
allora è Dio!» si domanda Febe... Non lo è! -le
risponde Aquila- Perché il Dio dei cristiani è misericordioso.
Nel
tradurre la Lettera ai Romani incontra molta difficoltà quando deve tradurre la
parola agapétois, amati da Dio, che
proviene da agápe, amore sollecito, e
poi legge: «Un Dio la cui perfezione invisibile, fin dalla creazione del mondo
poteva essere contemplata con l’intelletto nelle opere da Lui compiute». Se il
motore immobile è la perfezione suprema, è Somma bellezza e Sommo Bene, un
principio immutabile, il Dio di Paolo ha qualcosa di più: la sollecitudine per
gli uomini, è,appunto, un Dio misericordioso.
Febe
constata però la convinzione diffusa nel suo
tempo che,cioè, la sofferenza sia
la legge stessa della vita.
Su
questo non concordo ‘interamente’ perché la vita umana è piena di Cirenei e di
doni imprevisti che fanno sperimentare gioia insieme al dolore.
Sempre
nei Colossesi (3-17) leggiamo: «Rivestitevi dunque, amati da Dio, di sentimenti
di misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine e pazienza, cantando a Dio di
cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali».
Francesco
piccolino, come si legge a La Verna, dove ricevette le Stimmate, disse: «La
vostra pace sia nel fare la Sua voluntade» e questa è la pace cristiana.
Mi farebbe piacere leggere FEBE, perché da quanto leggo qui mi pare un
RispondiEliminaromanzo molto interessante e profondo, del tutto diverso dalle troppe
scemenzuole che circolano. Dove posso acquistarlo? Grazie.
Grazie!
RispondiEliminaIl mio romanzo è acquistabile tramite il sito dell'editore:
http://www.europaedizioni.it/1/febe_dal_tempo_all_eterno_rosa_elisa_giangoia_11547489.html
FEBE è davvero un romanzo importante. Io l'ho letto e posso dire che
RispondiEliminainduce a riflettere, ad approfondire, a porsi degli interrogativi e a
cercare delle risposte. Ci porta alle origini del cristianesimo e nello stesso tempo presenta situazioni e problemi di attualità, per cui vuol dire che dal particolare storico sa raggiungere l'universale umano.
Roberto Briano