Rosa Elisa Giangoia
A differenza
di quanto si poteva leggere ieri su “la Repubblica” con la scomparsa di Umberto
Eco non mi sento affatto più povera, perché tutta la fantasmagorica costruzione
intellettuale dello scrittore non aveva altro approdo che il Nulla.
Questo lo si
capiva bene fin dalla sua prima opera, il suo primo romanzo, Il nome della
rosa (1981), con il quale aveva compiuto il grande salto dalla cultura
accademica alla fantasia narrativa con la quale, grazie anche alle sue
raffinate e affilate armi dell’abilità comunicativa, poteva trasmettere ad un
ben più vasto pubblico il suo “messaggio”, cioè il messaggio del Nulla.
Forse non
molti l’avevano capito, anche perché, nonostante la fortuna mondiale di questo
romanzo, non credo che tutti coloro che l’hanno avuto in mano, attratti
dall’accattivante copertina della prima edizione, pur stuzzicati dalle vicende
tinte di intrigante giallo, siano riusciti a superare le secche delle tante
disquisizioni dottrinali e siano approdati all’ultima pagina del romanzo, in
cui viene svelato «il sugo della storia», ma non in modo diretto, come avviene
ne I Promessi Sposi, ma in maniera piuttosto criptica, attraverso l’
esametro latino Stat rosa pristina nomine, nuda nomine tenemus che
rimanda per ripresa di vocaboli al titolo del romanzo, onde creare attraverso
un calembour un senso valido per il titolo e per il romanzo nel suo
insieme. Tutto questo per dire che noi uomini possediamo solo i nomi, cioè
delle pure e semplici parole, che pronunciate o scritte, non dicono nulla al di
là del loro suono o dei segni delle loro lettere, in quanto non sono in grado
di significare nessuna verità. Della rosa abbiamo quindi solo il nome, come di
tutto il resto, quindi anche di Dio, che, come si dice, poche righe sopra
l’esametro citato è un puro nulla («Gott ist ein lautes nichts»). In
questo modo Eco con questo romanzo non si fa tanto portavoce del nominalismo,
ma piuttosto di quel nichilismo, che ora, a oltre trent’anni di distanza,
possiamo vedere essersi negativamente insinuato e diffuso nella mentalità con
le conseguenze negative che si possono facilmente rilevare, tanto da poter
definire Eco “un cattivo maestro”.
Di
conseguenza tutta la sua scrittura sarà fatta di parole vuote, recuperate dal
passato, reperite dal presente, inventate per il futuro, combinate abilmente
per creare una fantasmagoria di situazioni, di immagini e di personaggi, senza
consistenza, in un dinamismo da caleidoscopio, sostenuto da quella
enciclopedica cultura, fatta soprattutto di immensa e straordinaria conoscenza
di testi che va riconosciuta ad Eco. È però una cultura che andrebbe definita
con il termine tardo-antico di curiositas, cioè come accumulo di sapere,
senza un centro che dia senso, in un fluire in cui tutto si compone, scompone e
ricompone. In questo, fondamentale è la memoria, tanto valorizzata da Eco, ma,
come si vede nel romanzo in cui porta alle estreme conseguenze le sue capacità
memoriali e combinatorie, La fiamma della regina Loana, tutto si può
possedere nella memoria, tutto si può perdere e tutto si può
riacquistare, mantenendo tutto sullo stesso piano, senza valutazioni, senza
scala di valori, senza distinzione tra ciò che è vero e ciò che è inventato, in
quanto la verità «non è da nessuna parte», per cui verità e falsità si
vanificano in una neutralità che le annulla.
In questo
universo mentale di Eco tutte le cose, ed anche noi stessi, provengono da un
caos iniziale, si materializzano nelle fantasmagorie delle apparenze
individuate da nomi privi di senso e sono destinate a finire nel nulla
indifferenziato del caos finale, come indica metaforicamente il grande incendio
con cui si conclude Il nome della rosa che riduce in cenere l’abbazia,
con i suoi abitanti, insieme agli animali, agli oggetti, ai libri, a tutto:
evento questo previsto da Adso, il narratore della storia, in un sogno in cui
aveva visto rovesciarsi e confondersi tutto, persino Cristo con Giuda.
La realtà,
in questa sua inconsistenza e insignificanza, non può che far ridere: questo è
il messaggio che Eco ha voluto lanciare fin dal suo primo romanzo con il
sovra-significato che ha attribuito ad un libro (perduto o forse piuttosto mai
scritto dal suo autore), il secondo libro della Poetica di Aristotele, che,
dopo le rapide caratterizzazioni della commedia, avrebbe dovuto (o potuto)
approfondire il tema del riso, capace di scardinare la realtà, in quanto
avrebbe insegnato a ridere di tutto, anche delle cose più serie e importanti,
quali la santità e il peccato, nonché l’Incarnazione per cui avrebbe eliminato
la paura del peccato. Questo libro diventa il centro de Il nome della rosa,
perché avrebbe potuto liberare la “verità”, mentre verrà soffocata dato che
anch’esso perirà nell’incendio che tutto ha incenerito.
Di tutto
questo nel libro della Poetica di Aristotele non c’è nulla, nemmeno un
qualche minimo accenno recuperabile da qualche tradizione indiretta, per cui è
una invenzione tutta romanzesca di un Aristotele che Eco si costruisce, in
netto contrasto con quanto conosciamo del pensiero del filosofo greco, per
farne l’inventore e il capostipite della linea nominalistico-nichilistica,
secondo cui non esiste nulla di vero, quindi nulla di serio, fatta propria da
Eco stesso.
Se tutto è
“risibile” e “ridicolo” non resta che «una verità dal sapore di morte».
Una
letteratura che si faccia veicolo di tutto questo non ci piace e non ci
interessa. La letteratura deve aumentare la nostra consapevolezza umana, deve
far crescere la persona umana che è in noi, deve aiutarla, pur attraverso
l’esperienza del bene e del male, a raggiungere la pienezza della sua natura,
quella ben tratteggiata dal vero Aristotele, per la quale indica anche la
strada, quella della “scelta” che mira al bene, fino al bene sommo, che si
acquisisce con l’esercizio della virtù e che determina il conseguimento della
felicità. Questo è l’Aristotele che noi amiamo, non quello arbitrariamente
inventato dal “cattivo maestro” Umberto Eco.
Proffffffffffffff!!!! Ho letto quello che ha scritto su ECO: sa che quando a scuola spiegava il significato del titolo del “nome della rosa” non lo capivo? adesso invece, l’ho capito benissimo e l’ho trovato molto interessante! eppure dice le stesse cose! Si vede che allora ero ancora “immaturo”, sono cose da adulti! Ora sono a Dakar per lavoro. Un abbraccio.
RispondiEliminaAggiungerei che i romanzi di Eco rappresentano un tipo di letteratura senza anima (appunto!), ingegneristica, usata per far sfoggio di sapere e stupire quelli che non conoscono tante cose, ma è una letteratura fredda che non arricchisce lo spirito.
RispondiEliminaScusate, ma voi le avete capite le parole che Moni Ovadia ha detto su Dio e gli atei al funerale di Eco?
RispondiEliminaA me sono sembrate del tutto prive di senso.
Dio preferisce gli atei?
EliminaForse si rifà a certi maestri dello Chassidismo dell’Europa orientale che parlavano per assurdo, ma professandosi lui stesso ateo il suo è un sofisma totale. Siamo all’afasia come al tempo dei sofisti, all’ironia sul niente come voleva l’Eco, al pensiero debole del suo amico e compare Vattimo con sciarpa blu elettrico…